Nella vicenda della pretesa da parte di molti di equiparare di fatto a livello scolastico la festa cristiana della Pasqua con quella islamica della conclusione del Ramadan (equiparazione nella quale la cultura politicamente corretta celebra tutto il suo orgoglio e, a mio avviso, la sua “hybris”), la cosa forse che più sconcerta, ma che proprio per questo merita qualche breve riflessione è la perdita a livello sociale e culturale del valore della Pasqua per la civiltà occidentale, per la sua storia, ma anche per la sua attualità e il suo futuro.
Giustamente a livello privato tutte le feste religiose vanno rispettate, ad esempio ritenendo giustificate le assenze dei rispettivi fedeli tenuti ad osservarle, ma equiparare le feste di altre religioni a quelle della tradizione cristiana, come se fossero le partite di due diverse squadre di calcio da trasmettere entrambe in diretta tv per accontentare i rispettivi tifosi, è un grave segno di decadenza.
Il valore della Pasqua
Ma quali sono i valori umani e sociali della Pasqua che oggi si stanno perdendo e perché tutto ciò è un sintomo di decadenza della civiltà occidentale? Nella festa di Pasqua, soprattutto nella tradizione del cristianesimo occidentale, è inserita una ben precisa visione morale dell’uomo e della società, una ben precisa visione del rapporto tra il male e il bene, sulla base della quale nel corso dei secoli sono stati edificati i valori della nostra civiltà che, nonostante i suoi difetti, le hanno consentito di tutelare le libertà individuali e di realizzare il benessere sociale in misura superiore a quella di tutte le altre.
Quando si dice che la Pasqua è la festa della resurrezione di Cristo si dice una cosa vera, ma se ci si ferma lì se ne perde il senso ultimo ed essa (la si intenda come un fatto soprannaturale, come una realtà ultraterrena spirituale, o solo come un mito cristiano) diventa fine a sé stessa: il senso della Pasqua cristiana sta invece nello scopo della resurrezione, che consiste in un “passaggio”, il che riprende ovviamente il senso originario della festa ebraica di Pèsach (il passaggio degli israeliti dalla schiavitù egiziana alla libertà nella Terra promessa attraverso il Mar Rosso).
Un passaggio nel quale il Cristo risorto guida gli uomini dalla morte alla vita, ma anche dal dominio del male e del peccato al mondo del bene e della grazia divina. Che i singoli esseri umani e le società nel loro complesso siano non solo imperfetti, ma siano caratterizzati dal male, dall’ingiustizia nei suoi diversi aspetti e che quindi abbiano bisogno di redenzione è un concetto tradizionale del cristianesimo: si ricordi la parabola della zizzania (Vangelo di Matteo 13,24 –30) destinata durare sino alla fine del mondo.
La tradizione cristiana occidentale, prima con Tertulliano (155 – 230) e poi soprattutto con Sant’Agostino (354 – 430) ha elaborato il concetto di “peccato originale”, inteso come una situazione di dominio del male che condiziona la vita di ogni uomo e quella di ogni società umana, una situazione nella quale in ogni azione dei singoli e in ogni istituzione sociale, giuridica e politica c’è inevitabilmente una componente di male, il che di per sé renderebbe l’umanità una “massa dannata” (secondo la celebre espressione del vescovo di Ippona).
In questa concezione c’è indubbiamente (anche solo limitandoci ad un giudizio umano) una componente di verità e molti riconosceranno inoltre in questa visione negativa degli uomini e delle società, rivolta peraltro solo contro la civiltà occidentale, uno degli aspetti fondamentali della cultura woke oggi di moda, ma ovviamente la concezione cristiana elaborata da Agostino non finisce qui, ed anzi ribalta questa visione negativa dell’umanità, proprio grazie ai valori della redenzione celebrata nella Pasqua.
La “felice colpa”
Ho detto che lo spirito e i valori della Pasqua vanno oltre le celebrazioni ecclesiastiche in senso stretto, e del resto molte chiese cristiane, soprattutto in America e in estremo Oriente, figlie del protestantesimo radicale, non hanno una liturgia prestabilita (sono dette “aliturgiche”), ma per comprendere il valore e il senso sociale del passaggio dal male al bene è utile rifarci ad un’espressione paradossale (troppo spesso ripetuta con un spirito burocratico da parte dei celebranti) contenuta nella liturgia cattolica della Veglia pasquale che si svolge il sabato santo e in particolare nell’inno (chiamato “Exsultet”) che proclama la resurrezione al passaggio della mezzanotte. Una espressione che riprende anch’essa un pensiero di Sant’Agostino, e che poi fu commentata e valorizzata da San Tommaso d’Aquino (1225 – 1274), e che consiste nella definizione del peccato originale come una “felice colpa”.
Il paradosso di questa espressione (ma è un paradosso al quale la cultura occidentale deve molto) è che grazie alla redenzione il mondo non diventa perfetto, ma i difetti e le ingiustizie diventano mezzi per realizzare il bene, un bene che non consiste in una impossibile perfezione della società (assenza di colpa), ma in una trasformazione della stessa in vista di valori umani e per chi crede divini, capaci di renderla migliore (felice colpa).
Il bene e il male secondo questa visione del mondo cristiana non sono due entità separate, come vogliono tutte le concezioni manichee, dal manicheismo in senso stretto, fondato da Mani (216 – 277), cui Agostino aderì in gioventù per poi ripudiarlo, alle concezioni totalitarie moderne (giacobinismo, nazismo, comunismo ecc.), fino alla odierna ideologia woke, ma rappresentano piuttosto il frutto di due diversi modi di mettersi in rapporto con le cose umane e sociali, che diventano male (diventano degli idoli che portano al male) quando sono rese assolute, mentre diventano strumenti del bene quando sono poste empiricamente in relazione all’unica vera fonte del bene che per Agostino è la grazia di Dio.
Il “rispettabile inferno”
Il discorso, al di là della fede religiosa in senso stretto, ha una sua validità non solo per il credente laico, rispettoso ma non legato alle concezioni di questa o quella chiesa, ma anche per chi non crede: tutte le cose umane e le società ideali che i pensatori e gli attivisti con pretese umanitarie, compresi gli attivisti woke (laici ed ecclesiastici) sono stati capaci di elaborare sarebbero per Agostino solo dei tentativi di rendere perfette le istituzioni umane (la “città degli uomini”), cioè di far scendere la “città di Dio” su questa terra, tentativi i quali sempre in base alle concezioni del grande pensatore africano, finirebbero per creare la “città del diavolo”.
Non bisogna andare molto lontano per vedere cosa hanno realizzato i regimi totalitari e cosa sta realizzando la cultura woke oggi, il mondo dell’odio e della contrapposizione manichea: con una nota espressione del filosofo austriaco-britannico Karl Popper (1902 – 1994), non lontana da quella di Agostino, possiamo dire che le ideologie totalitarie, con la promessa di un paradiso terreste, hanno realizzato un “rispettabile inferno” laddove hanno attecchito, e la stessa cosa minaccia di fare l’ideologia woke: si pensi al preoccupante ritorno dell’antisemitismo o antiebraismo che dir si voglia.
Cristianesimo e liberalismo
Tutto questo principalmente perché le ideologie totalitarie non hanno compreso, o forse hanno dimenticato, o forse hanno coscientemente ripudiato la visione del mondo cristiana basata sulla redenzione di cui parla la festa di Pasqua e in particolare sul concetto di “felice colpa”, e sulla trasformazione dell’imperfezione umana, comprese molte cose astrattamente ingiuste (quelle che farebbero parlare di “massa dannata”) in mezzi per compiere il bene.
Il già citato Popper, forse uno dei pensatori che ha meglio capito il legame fondamentale tra il cristianesimo e i liberalismo moderno (liberalismo inteso in senso classico, come una visione del mondo, di destra di sinistra o di quel che si vuole, ma in ogni caso basata sull’accettazione dei difetti umani e sulla loro correzione empirica e responsabile) ha affermato che un cristiano non deve rifugiarsi a inseguire miti e visioni ideali del mondo terreno, e non deve rifiutarsi di “portare la croce dell’essere umano” (cioè dell’umana imperfezione ed ingiustizia): la cosa vale ovviamente anche per i non credenti.
Il “portare la croce dell’essere umano” senza cedere alle illusioni di questa o quella ideologia “perfettista” costringe spesso a scegliere tra due mali, tra due colpe, ma questa scelta si trasforma in una scelta per il bene (felice colpa), quando ciò avviene responsabilmente alla luce dei valori fondamentali, quelli che il cristianesimo (nonostante tutti i suoi difetti e le sue infedeltà ad essi) ha incorporato nella tradizione occidentale e che il liberalismo moderno (nonostante … idem come sopra) ha ereditato e fatto propri.
Questi valori sono soprattutto la visione empirica e non assoluta delle realtà umane, comprese quelle che incarnano i più alti ideali (la pace, l’inclusione, la misericordia, la tolleranza ecc.) che rischiano di trasformarsi in mezzi per realizzare il male; e l’individualismo legato all’altruismo, in base al quale le idee morali e politiche non sono calate dall’alto dalle istituzioni (partiti, chiese ecc.) ma nascono del basso, dalle associazioni degli individui (politiche, ecclesiali ecc.) e tendono a realizzarsi attraverso una serie di libere scelte, individuali e comunitarie, sociali e politiche.
La pretesa di perfezione
Nulla di tutto questo è stato presente nelle ideologie totalitarie né è presente nei movimenti woke, compresi quei settori delle chiese cristiane che ad essi aderiscono. In essi domina la pretesa di perfezione: ad esempio (per citare alcuni “cavalli di battaglia” del pensiero woke) non si tiene conto che la pace senza se e senza ma può essere peggiore della guerra, perché può portare alla diffusione su vasta scala di crimini efferati come quelli compiuti dai nazisti o da Hamas.
Non si comprende che l’integrazione a tutti i costi degli stranieri può creare danni irreparabili, umani e sociali ai residenti, agli stessi immigrati e ai loro Paesi di origine; non si comprende (o non si vuole ammettere) che l’ambientalismo esasperato può distruggere il benessere e la libertà di intere popolazioni senza avere una solida base scientifica, che il preteso antirazzismo crea una società divisa in razze ecc. ecc.
Non penso di esagerare se concludo dicendo che la causa culturale ultima di questa situazione che sta minando alla radice la civiltà occidentale, è proprio le perdita di questi valori incorporati nella Pasqua, e in particolare nel paradosso della “felice colpa”, ed effetto particolare ma non secondario di ciò è la perdita in molti casi del contenuto religioso della predicazione da parte di molti esponenti e leader (per fortuna non di tutti) delle chiese cristiane (si pensi in ambito cattolico ad alcune prese di posizione dal parte del Papa Francesco e di molti vescovi), i cui discorsi sovente non si distinguono da quelli degli attivisti woke inseriti nelle organizzazioni non governative, se non per un tocco di soprannaturale.
Un soprannaturale che però, sia detto con tutto il rispetto, è troppo legato alla “città degli uomini” e troppo spesso non tiene conto della inevitabile “colpa” dell’umanità (compresa quella contenuta nelle citate idee woke), e del modo in cui essa può essere trasformata in quella “felice colpa” che si è cercato di descrivere e sulla quale si fonda (ci limitiamo ovviamente all’aspetto umano) la civiltà occidentale basata sulla tradizione giudaico-cristiana.
Una civiltà che non sarà perfetta a livello ideale come quella comunista o quella woke, ma che, per riprendere una celebre espressione (riferita alla democrazia) di Winston Churchill (1874 – 1965) un grande pieno di difetti che però seppe scegliere una guerra giusta invece di una pace con un nemico criminale, possiamo definire in concreto come “la peggiore ad eccezione di tutte le altre”, e lo è di gran lunga.