Oltre che critico delle principali tesi del marxismo ortodosso, Karl Popper è stato avversario della “Nuova sinistra” e, in particolare, di Herbert Marcuse, autore che ha goduto di un grande momento di notorietà a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del secolo grazie soprattutto al celebre volume “L’uomo a una dimensione”.
Rivoluzione o riforme?
Nel 1977 comparve per i tipi dell’editore Armando un volumetto dal titolo “Rivoluzione o riforme?”, nel quale le tesi di Marcuse e di Popper venivano sottoposte a un confronto serrato dall’intervistatore Franz Stark. A riprova del fatto che quel dibattito è tutt’altro che obsoleto, l’opera è stata ripubblicata più volte perché, come afferma nella sua introduzione Fabrizio Ravaglioli, “rileggere questo confronto tra Popper e Marcuse, per ricordare e per imparare a prevedere, potrebbe essere una utile misura terapeutica nei confronti dell’attualità. Si impara a conoscerla meglio, senza farsi guidare dalle sue preferenze”.
La contrapposizione tra i due modi di concepire la politica e di vedere il mondo risulta già, nettissima, nelle prime pagine del volume in cui vengono presentate le idee di fondo dei due filosofi. Per Marcuse la società capitalistica avanzata, pur essendo la più ricca e tecnologicamente progredita della storia, e quindi, a suo giudizio, la più suscettibile di condurre a una “liberazione totale” dell’uomo, è anche la forma di convivenza più repressiva che mai sia sorta; ne consegue che l’unico modo per produrre mutamenti sostanziali è quello rivoluzionario che ne modifichi radicalmente la struttura. Come vedremo tra poco, tuttavia, Marcuse ha idee tutt’altro che chiare sulle modalità di attuazione di un simile processo.
Dal canto suo, Popper afferma che le nostre società di tipo occidentale, nonostante i molti limiti che possiedono, costituiscono probabilmente lo stadio più avanzato mai raggiunto dall’umanità sulla via dell’emancipazione; pur non essendo “società ideali”, un concetto cui del resto lo stesso Popper concede scarso credito, esse contengono meno ingiustizia di qualsiasi altro tipo di società finora realizzato: “gli ordinamenti delle nostre società democratiche occidentali sono dunque assai imperfetti e abbisognano di correzioni, ma sono i migliori che siano esistiti fino ad oggi”.
Ma tra tutte le idee politiche, il desiderio di rendere gli uomini perfetti e felici è forse la più pericolosa. Il tentativo di realizzare il paradiso sulla terra ha sempre prodotto l’inferno. Le eventuali storture, insomma, sono eliminabili attraverso processi di riforma e senza fare ricorso a soluzioni di tipo radicale.
Come si può subito comprendere, il punto di riferimento dei due interlocutori è la società occidentale, industrialmente forte e tecnologicamente avanzata, dotata di organi di democrazia rappresentativa eletti dal basso attraverso consultazioni popolari libere, e in grado di garantire il normale avvicendamento di partiti diversi nell’esercizio del potere.
Povertà dell’analisi di Marcuse
Mette conto comprendere quali siano le motivazioni che spingevano Marcuse a esprimere dei giudizi radicalmente negativi e, soprattutto, occorre cercare di scoprire quali siano le sue proposte alternative, dal momento che una buona critica, oltre a distruggere, deve anche essere in grado di costruire.
L’impresa si presenta subito poco meno che disperata, dal momento che Marcuse sembra esprimere non tanto delle proposte politiche, quanto delle opzioni sentimentali ed emotive. La società ideale dev’essere senza sfruttamento, senza spreco e senza oppressione. Quando tuttavia l’intervistatore gli chiede quale sia il modello alternativo di società, egli risponde:
Mi sembra che il modello alternativo non sia troppo difficile a determinarsi. Quanto alla sua fisionomia concreta, è un’altra questione. Ma credo che sulla base di un’eliminazione della povertà e dello smisurato spreco di risorse si possa trovare una forma di vita in cui gli uomini riescano realmente a determinare essi stessi la propria esistenza.
Naturalmente si può anche concordare sul fatto che in un’eventuale società in cui non sussista alcun tipo di povertà sarebbe più facile determinare la propria esistenza. Ma l’intervistatore insiste nel chiedere quale sia la strada per giungervi, al che il nostro autore replica:
La strada per giungervi è naturalmente qualche cosa che si può concretizzare soltanto nel processo della lotta necessaria per porre in essere tale società. Esiste ovviamente il problema del soggetto della trasformazione, cioè l’interrogativo: chi è il soggetto rivoluzionario? Per me questo è un problema senza senso, poiché il soggetto rivoluzionario può svilupparsi solo nel processo stesso della trasformazione. Non c’è alcunché di preesistente e che si debba solo rintracciare in questo o in quel luogo. Il soggetto rivoluzionario scaturisce nella prassi, nello svilupparsi della coscienza, nello svilupparsi dell’azione.
In queste frasi appare quanto mai evidente la debolezza e la fragilità dell’impalcatura teorica marcusiana. Risalta soprattutto quello che Alberto Ronchey definì lo squilibrio fra l’aspirazione a uno schema totale e l’estrema parzialità del supporto sociologico, che si concretizza a sua volta in una programmatica indifferenza per i dati concreti e i fatti empirici; la divaricazione irrimediabile tra la vastità dell’esame condotto e l’angustia delle conclusioni non poteva condurre ad altro che alla formula del “Grande Rifiuto”, con la quale il filosofo sintetizza il proprio pensiero in “L’uomo a una dimensione”.
Quando poi l’intervistatore cerca di capire quali siano a parere di Marcuse le garanzie che la soppressione del modo di produzione capitalistico conduca a una società in cui l’individuo sia realmente libero, facendo anche notare che gli esempi storici concreti a nostra disposizione vanno in tutt’altra direzione, si sente rispondere:
Su questo non esiste alcuna garanzia. La storia non è un istituto di assicurazione: è impossibile aspettarsi delle garanzie. A tal riguardo si può dire soltanto che la soppressione della società capitalistica in ogni caso offrirà, potrà offrire i presupposti fondamentali su cui sviluppare una società libera.
In questo caso il contrasto tra la certezza dogmatica espressa da quel “in ogni caso” e la povertà dei mezzi di analisi è davvero evidente. È piuttosto ovvio che Marcuse non si rende conto di barare al gioco su problemi assai delicati: non si propongono alternative totali quando non si hanno le idee chiare su come realizzarle.
I nuovi soggetti rivoluzionari
Herbert Marcuse fu, del gruppo dei francofortesi, l’esponente più politicizzato. L’automazione dei processi produttivi e la diffusione delle nuove tecnologie forniscono, a suo avviso, l’opportunità di liberarsi dal bisogno, di vivere un’esistenza basata sul principio del piacere e non più su quello della prestazione e dello sfruttamento. Il soggetto rivoluzionario non è più la classe operaia, poiché i francofortesi si erano accorti – e questo è un loro indiscutibile merito – che nei Paesi avanzati era in corso un processo accelerato di terziarizzazione che conduceva a un’assimilazione progressiva tra proletariato e classe media.
I nuovi soggetti rivoluzionari andavano allora individuati, da un lato, negli studenti e negli intellettuali che nelle nazioni industrializzate erano coscienti del carattere meramente formale della democrazia parlamentare e, dall’altro, nei soggetti emarginati e nei popoli del Terzo e del Quarto Mondo, veri depositari della purezza rivoluzionaria perduta dal proletariato occidentale.
Di qui l’esaltazione della Rivoluzione culturale, mentre la Cina Popolare veniva considerata come il Paese che più si avvicinava ai contorni della società del futuro. E tale società, che Lucio Colletti definì “apollinea”, doveva secondo Marcuse essere caratterizzata dalla liberazione delle pulsioni sessuali, dal superamento del lavoro (il quale sarebbe stato assicurato dalle macchine), e dalla prevalenza della fantasia e dell’immaginazione sulla razionalità e sul senso critico della realtà.
Società aperta e democrazia
A speculazioni così ardite Popper oppone una difesa argomentata della democrazia liberale. Nota ancora Fabrizio Ravaglioli che “la storia pare aver dato ragione a Popper, che diffidava dei profeti, e non a Marcuse, che credeva di parlare a nome di essa”. Contrariamente al suo interlocutore, Popper ha sempre impostato il proprio discorso lasciando intendere che la società aperta è una meta cui si deve tendere con tutte le forze, pur rendendosi conto dell’impossibilità di realizzarla in modo assoluto.
Si tratta quindi di un obiettivo capace di ridare all’uomo fiducia e speranza con la proposta di rendere la società sempre più adatta alle sue esigenze. In questo senso, nemmeno la basilare nozione di “democrazia” può essere assolutizzata:
La democrazia in sé non è niente di particolarmente buono, ogni forma di bene viene da un’altra parte, non dalla democrazia. Questa non è che un mezzo per evitare la tirannide, e basta. Ovviamente è vero che la democrazia significa che tutti gli uomini sono uguali davanti alla legge, che nessuno può essere considerato criminale finché non è stato provato che lo sia e così via. Questi principi fondamentali sono parte dello Stato di diritto. Il che significa che la democrazia è un modo di preservare lo Stato di diritto. Ma non c’è in democrazia il principio che la maggioranza ha ragione, perché la maggioranza può commettere i più gravi errori, può introdurre un tiranno, può votare per la tirannia, come è accaduto piuttosto spesso.
È inoltre sufficiente una lettura non superficiale dell’opera popperiana per smentire le accuse di reazionarismo e di positivismo deteriore che a più riprese sono state rivolte al filosofo di origine austriaca. Popper non ha mai abbinato alla critica del totalitarismo una immobilistica difesa dell’ordine esistente. Ricorrono infatti molto spesso, nelle sue opere, rilievi critici contro gli squilibri e le diseguaglianze che le società occidentali presentano.
Ma egli ritiene pure di individuare nella democrazia liberale i mezzi sufficienti per superare, attraverso opportune riforme, tali squilibri e diseguaglianze; la società politica auspicata da Popper è aperta anche – e soprattutto – per il fatto di essere una società dinamica, disponibile ai contributi critici (ma non a quelli meramente distruttivi) da qualunque parte essi provengano, e attenta inoltre a conservare per i cittadini le libertà politiche e civili che la distinguono da altri modelli di organizzazione sociale.