Se all’Università di Oxford cancellano la civiltà occidentale

Un libro della docente di storia Josephine Quinn realizza il sogno più bagnato della sinistra woke. La capitolazione dell’establishment culturale

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La vecchia Inghilterra non smette mai di sorprendere i suoi estimatori, sempre in attesa di “illuminazione”, soprattutto in materia di scienza e scienze applicate, nonché negli sterminati territori del pensiero politico ed economico. Ma anche in materia di storiografia non si scherza: pensate, solo per fare un esempio nostrano, a quanti onori abbiamo (giustamente) tributato alle opere sull’Italia moderna e contemporanea di Denis Mack Smith, per l’appunto un figlio d’Albione anche lui. Ed è esattamente di un testo storiografco pubblicato nei mesi scorsi che ci occupiamo in questo articolo.

Chiariamo subito una cosa: un tempo, a torto o a ragione, un nuovo libro scritto da un professore di Oxford suscitava non solo curiosità e rispetto tra gli addetti ai lavori della disciplina di competenza, ma anche una certa deferenza – e talvolta autentico entusiasmo – presso un più vasto pubblico (con la complicità dei critici sui media). Oggi come oggi, perché si rispetti la tradizione, bisogna che il libro possegga determinati requisiti, che le sue coordinate culturali e politiche siano “quelle giuste”. Sono sicuro che avete già capito a cosa alludo.

Civiltà occidentale un’illusione

“How the World Made the West” (“Come il mondo ha creato l’Occidente”), di Josephine Quinn, docente di storia antica ad Oxford, appartiene a questa categoria. Il libro si prefigge di portare a compimento l’obiettivo e il sogno di legioni di “sinistri” di tutto il mondo e da tempo immemorabile. Lo scopo di Quinn non è solo di distruggere ciò di cui, a generazioni di scolari e studenti universitari, si è insegnato ad andar fieri, cioè i valori e le conquiste occidentali.

La storica oxoniense vuole demolire anche il concetto che sta alla base di quello che lei chiama “civilisational thinking”, cioè, tecnicamente parlando, un approccio intellettuale che mette l’accento sullo studio e la comprensione delle società umane attraverso la lente delle civiltà piuttosto che dei singoli stati, nazioni, o gruppi etnici. Questo approccio considera le civiltà come entità ampie, durature e culturalmente distinte che modellano la storia umana, l’identità e le dinamiche socio-politiche.

Un esempio importante di civilisational thinking è la teoria di Samuel Huntington, l’autore del famoso “The Clash of Civilizations”, del 1996, secondo cui i conflitti globali post-Guerra Fredda sarebbero guidati da differenze culturali e “di civiltà” piuttosto che ideologiche o economiche.

Un’implicazione fondamentale del rifiuto del civilisational thinking è che non esiste quella cosa che viene chiamata “civiltà occidentale”. By the way, sarebbe stato proprio quel tipo di approccio – spiega la prof. britannica – a fornire le basi culturali della pretesa supremazia dell’Europa occidentale durante il XIX secolo, consentendo l’espansione coloniale e le gerarchie razziali.

L’impostazione di Quinn, ovviamente, non è senza radici. Com’è arcinoto, gli storici marxisti e di estrema sinistra in genere hanno sostenuto ben prima di lei che la storia dell’Occidente è segnata dallo sfruttamento e dal conflitto tra diverse classi sociali. Antonio Gramsci, in particolare, introdusse il concetto di egemonia culturale per descrivere il dominio ideologico della borghesia sul proletariato. In altre parole, le norme culturali e i valori dominanti della civiltà occidentale servono a mantenere il potere della classe dominante.

Oggi, la narrazione della sinistra è che la civiltà occidentale è un’illusione. Gli storici postmoderni e decostruzionisti hanno affermato che l’Occidente è un’invenzione dei filosofi del XVIII secolo. Scettici nei confronti delle grandi narrazioni che sono state storicamente utilizzate per descrivere la civiltà occidentale, come il progresso, l’illuminazione, ecc., essi sostengono che queste narrazioni semplificano eccessivamente storie complesse ed emarginano prospettive alternative.

Quinn, per parte sua, sottolinea (portando un’abbondante documentazione) che la civiltà occidentale non esisterebbe senza le sue influenze islamiche, africane, indiane e cinesi, e che i cosiddetti valori occidentali – libertà, razionalità, giustizia e tolleranza – non sono solo o originariamente occidentali. Piuttosto, “l’Occidente stesso è in gran parte il prodotto di legami di lunga data con una rete di società molto più ampia”.

Compiacere il woke

Ora, però, nessuno ha mai pensato che le culture antiche esistessero in una separazione totale ed ermetica. Il problema è che, mentre afferma che non esistono “civiltà” monolitiche, la docente di Oxford nega di fatto che esistano anche (quanto meno) culture distinte. Questo equivale, francamente, a pensare che un quadrato abbia cinque lati, una sfida al buon senso e alle più elementari certezze basate sull’evidenza.

In breve, il radicalismo di Quinn – o un desiderio (neanche tanto inconscio) di compiacere il woke people e la cancel culture – è il suo tallone d’Achille. È inevitabile, a questo punto, ricordare le parole profetiche di G. K. Chesterton: “La grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. Tutto sarà negato. […]  Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate”.

La resa dell’establishment culturale

Ciò che forse sorprende di più del libro è la calorosa accoglienza da parte della critica nel Regno Unito, dove “How the World Made the West” è stato pubblicato da Bloomsbury il 29 febbraio scorso. Ciò significa inequivocabilmente che la capitolazione dell’establishment culturale britannico allo “wokeismo” è completa. Dare un’occhiata a queste recensioni per farsi un’idea: “La storia dell’Occidente non è proprio quella che hai imparato a scuola” (The Economist), “How the World Made the West di Josephine Quinn, recensione – ripensare la ‘civiltà’” (The Guardian), “Il mito dell’Occidente” (New Statesman), “Come il mondo ha creato l’Occidente: un affondamento dei miti della civiltà” (Financial Times).

Quest’ultimo ha una buona domanda (dopo generosi elogi) che facciamo senz’altro nostra:

Dopo aver letto questa “storia” supremamente professionale, mi è rimasta la domanda: a chi è destinata? Con l’avvicinarsi del cinquantesimo anniversario dell’orientalismo fondamentale di Edward Said, ai nostri studenti universitari non mancano certamente il relativismo culturale o gli appelli alla decolonizzazione. Nel Regno Unito, la Generazione Z ha già ben poca voglia di difendere la “civiltà occidentale”, con un recente sondaggio di YouGov che mostra che il 38 per cento dei giovani sotto i 40 anni afferma che si rifiuterebbe di prestare servizio nelle forze armate in caso di una nuova guerra mondiale, e il 30 per cento affermano che non presteranno servizio neanche se la Gran Bretagna dovesse affrontare un’imminente invasione.

Il libro uscirà in Nord America il prossimo 3 settembre. Sarà interessante vedere come verrà accolto dalla critica e dai giornaloni di laggiù. Ma non c’è da aspettarsi niente di buono. Mala tempora currunt…

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