Solzenicyn, lo scrittore che smascherò la falsità morale del comunismo

Oggi 15 anni dalla morte. Nessuno dimostrò in modo più convincente l’assoluta falsità morale del comunismo e la sua profonda corruzione intellettuale

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Il 3 agosto del 2008, a Mosca, moriva il grande romanziere e dissidente sovietico Aleksandr Solzenicyn. Il nome dello scrittore è associato alla pubblicazione, avvenuta in Occidente nel 1973 in seguito a numerose peripezie, della sua monumentale opera intitolata Arcipelago Gulag, un potente atto d’accusa contro il sovietismo, capace di provocare una mutazione nella percezione globale del comunismo, e contribuire così all’inesorabile delegittimazione del totalitarismo.

L’anti-umanesimo bolscevico

Il mito sovietico, per mezzo degli scritti di Solženicyn, subì un colpo mortale. Il presunto “umanesimo” comunista si rivelò una menzogna ben confezionata. Nessuno dimostrò in modo più convincente l’assoluta falsità morale del comunismo e la sua profonda corruzione intellettuale.

La sua esortazione a vivere nella verità, a cui fecero eco Jan Patocka e Václav Havel, eroici fondatori di Charta 77, si accompagnò sempre allo sforzo di smascherare le basi terroristiche del marxismo-leninismo, indipendentemente dalle sue incarnazioni storiche (stalinismo, trotskismo, maoismo, castrismo).

Per Solženicyn, le radici dell’anti-umanesimo bolscevico affondavano nell’ateismo. Inorgogliti dalla propria capacità di comprendere il mondo, di potersi dare autonomamente i criteri per distinguere il bene dal male, i bolscevichi cercarono di modellare la realtà sulla base della loro ideologia e, facendo questo, non esitarono a eliminare tutti coloro che consideravano degli ostacoli o delle “scorie” del passato. Si trattava, come disse il filosofo francese Bernard-Henri Lévy, di una “barbarie dal volto umano”. Lungi dall’essere un’attenuante, la pretesa umanistica fu un’aggravante.

I Gulag

Sempre grazie ad Aleksandr Solzenicyn, la parola Gulag entrò nel vocabolario corrente a indicare l’universo dei campi di concentramento comunisti. L’intellettuale rumena Monica Lovinescu, una volta, disse che se fosse arrivato un diluvio e si fosse trovata costretta a dover salvare solo tre libri che raccontassero la catastrofe del comunismo, questi sarebbero stati Buio a mezzogiorno di Koestler, 1984 di Orwell e, ovviamente, Arcipelago Gulag di Solzenicyn.

Il romanziere russo fu l’indomito cronista di un secolo ricolmo di stermini e genocidi, impregnato di esacerbata crudeltà e infamia. Come Vasilij Grossman, autore dell’indimenticabile Vita e destino, spiegò che il totalitarismo sarebbe stato impossibile in assenza di un ingrediente ideologico mostruosamente inebriante. A causa di ideologie messianiche e inflessibili, il XX secolo sperimentò morte e terrore su scala industriale.

Fu Solzenicyn ad aprire gli occhi a milioni di persone in Urss e all’estero sul triste destino degli zek, ossia i prigionieri dei campi di prigionia. Come Primo Levi scrisse di Auschwitz, Solzenicyn documentò, con una prosa immortale, la lotta per la sopravvivenza di milioni di detenuti nelle circostanze più atroci. Con immenso coraggio sfidò le vessazioni della polizia segreta e, nonostante gli innumerevoli ostacoli, seguitò a scrivere.

L’esilio

Quando le intimidazioni e le calunnie si rivelarono inefficaci, gli apparati sovietici decisero di espellerlo. In esilio, continuò la sua lotta contro l’oppressione e la menzogna. Irritò molti anche in Occidente per via delle sue forti critiche a ciò che egli definiva “mercantilismo dilagante” e “decadenza morale”. Il suo attacco agli studiosi occidentali della Russia e dell’Urss si dimostrò mal informato e largamente ingiusto. Gran parte delle sue riflessioni avevano qualcosa di inquietantemente messianico e oscurantista.

Tuttavia, il suo impegno per la libertà rimase incrollabile e i suoi scritti vennero, fin da subito, riconosciuti come parte della migliore tradizione della letteratura russa. Pur con tutti i suoi passi falsi, compresi gli elogi senili a Putin, Solzenicyn è stato una delle grandi coscienze morali del XX secolo, l’epitome della vita e del destino dello zek.

Le accuse di antisemitismo

Purtroppo, alla fine della sua vita, scrisse un libro sulle relazioni russo-ebraiche che si prestò ad accuse di antisemitismo. La principale obiezione che si può muovere a Solzenicyn è quella di essersi impegnato in un’analisi storica senza una conoscenza approfondita del tema, lasciandosi andare a speculazioni basate su fonti selettive e non sempre affidabili.

Non considerò mai il bolscevismo come un progetto politico etnico, specificamente ebraico, ma alcuni dei suoi scritti si prestano a interpretazioni malevole in odore di antisemitismo. Persino in Arcipelago Gulag, quando scrive di come alcuni ebrei occupino posizioni di comando nei campi e nel KGB, lo fa con particolare amarezza e disprezzo. È come se volesse far capire ai suoi lettori che sono degli elementi estranei a opprimere il popolo russo. Definirlo come “antisemita” sarebbe ingiusto. I suoi scritti, infatti, non nascono dall’odio per gli altri, bensì dall’amore per il suo popolo.

Solzenicyn e Sacharov

La dissidenza sovietica, di fatto, ebbe due grandi punti di riferimento: Aleksandr Solzenicyn e Andrej Sacharov. Il primo si richiamava a una forte identità russa, il secondo ai diritti umani universali. In un certo senso, si trattava di una continuazione della storica divisione dell’intellighenzia russa tra “occidentali” e slavofili, che rimase però sopita di fronte alla comune lotta contro il totalitarismo.

Quando la cortina di ferro cadde, le differenze tra gli schieramenti vennero prepotentemente a galla. Da una parte c’erano i democratici, eredi di Sacharov; dall’altra Solzenicyn, che metteva al primo posto l’identità russa. Contro il KGB, le forze dell’identità e della libertà si trovarono dalla stessa parte della barricata, oggi, purtroppo, si trovano su fronti diversi. E Solzenicyn, nella Russia post-sovietica, fu un campione dell’identità più che un campione della libertà.

Una dinamite morale

Filosofo dell’azione dissidente, Solzenicyn demistificò il comunismo come dittatura della menzogna. Per lui, come per Anna Achmatova, Nikolai Berdiaev e Lev Sestov, il bolscevismo, figlio del marxismo, rappresentò un ateismo neo-barbarico. Nella sua lettera del 1967 indirizzata all’Unione degli Scrittori Sovietici, nel momento in cui fu trasformato in una non-persona, senza diritto di pubblicare nulla, chiese ai suoi ex colleghi di abbandonare le chimere ideologiche e di vivere nella verità.

Queste parole furono dinamite morale. Gli scrittori sovietici lo ignorarono, ma gli intellettuali critici della Cecoslovacchia lo ascoltarono e decisero di seguire il suo consiglio. Uomini come Václav Havel, Ludvík Vaculík, Pavel Kohout, manifestarono la loro solidarietà a Solzenicyn. Aleksandr Solzenicyn e Andrei Sakharov si trovarono in disaccordo sul ruolo del liberalismo e del pluralismo nella storia russa, ma condivisero lo stesso impegno incondizionato per la verità come valore non negoziabile.

Il romanzo di Solzenicyn Una giornata di Ivan Denisovič, pubblicato nel 1963, previa approvazione di Nikita Krusciov, cambiò il panorama morale della letteratura nel blocco sovietico. Introdusse una nuova matrice etica e una nuova grammatica della conoscenza storica; rese impossibile l’ignoranza del male totalitario. Per la prima volta, il tema dei campi di concentramento emergeva nella prosa ufficiale. Inoltre, il protagonista era un semplice uomo sovietico, non un luminare bolscevico perseguitato da Stalin.

Influenza in Occidente

Anche in Occidente l’effetto fu sconvolgente. Sintomatico il caso dello scrittore Pierre Daix, redattore del settimanale comunista Les Lettres Françaises. Nel 1949, Daix, comunista militante, accusò il disertore sovietico Victor Kravchenko di diffamazione e menzogne sui Gulag. Fu uno dei processi più pubblicizzati dell’epoca, che si concluse con una grande sconfitta per la propaganda comunista.

Daix, all’apparenza un uomo intossicato in modo irrecuperabile dall’ideologia, dopo la lettura di Solzenicyn, nel 1963, ruppe con il Partito Comunista Francese e divenne egli stesso un intellettuale dissidente.

A prescindere dai suoi errori umani, Aleksandr Solzenicyn rimase fedele alla memoria dei morti nei gulag. Ci sono voluti una volontà di ferro, un’incredibile intransigenza, un autentico senso di urgenza morale, per combattere il colosso totalitario. George Kennan ebbe ragione nel dire che nessun altro scrittore fece tanto quanto Solzenicyn per smascherare il dispotismo totalitario. Fu, e continua a essere, il testimone chiave dell’accusa.

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