Beati gli anglofoni, perché nell’era del politically correct applicato alla lingua si ritrovano un po’ meno incasinati di noi, poveri diavoli condannati a divincolarci nelle sabbie mobili dell’orrido dualismo maschile/femminile…
Una lingua in cui non c’è costrutto nel buttarla in caciara quando si tratta di stabilire quale sia il termine più adatto per indicare una donna che esercita la professione notarile, o quella medica, magari nella variante chirurgica, e per non parlare della gentile signora o signorina che ha scelto di servire la patria in armi.
Sì, insomma, ci siamo capiti: notaio/notaia, architetto/architetta, medico/medica, chirurgo/chirurga, soldato/soldata e chi più ne ha più ne metta. Dualismo che in inglese te lo scordi, giacché un medico e una medica sono sempre e solo a physician, mentre un chirurgo e una chirurga sono a surgeon e un soldato e una soldata sono a soldier.
E in aggiunta senza la schiavitù degli articoli, con quel prodigioso e regale the che si pappa tutti i lo, il, la, e in sovrappiù i, gli e le, perché a loro piace far le cose per bene, senza fronzoli e fino in fondo.
Eh no, da noi no. Da noi per cavare un ragno dal buco ci vogliono diatribe accademiche interminabili, finché non si pronuncia qualche pezzo da novanta del settore, tipo l’Istituto della Enciclopedia Italiana con l’edizione 2022 de Il Vocabolario Treccani, che si autoproclama “un progetto ambizioso e rivoluzionario, nel quale tradizione e progresso si fondono per testimoniare i cambiamenti socio-culturali del nostro Paese e riconoscere – validandole – nuove sfumature, definizioni e accezioni in grado di rappresentare e raccontare al meglio la realtà e l’attualità, attraverso le parole che utilizziamo per viverla e descriverla”.
Nello specifico, in tutta la storia plurisecolare della lessicografia italiana, il Treccani sarà il primo vocabolario che non presenta le voci privilegiando il genere maschile, scegliendo piuttosto – con buona pace della tradizione androcentrica – di lemmatizzare anche aggettivi e nomi femminili, facendosi così promotore di inclusività e parità di genere e al tempo stesso riconoscendo tra i neologismi espressioni come distanziamento sociale, dad, infodemia, lavoro agile, reddito di cittadinanza, terrapiattismo, transfobia e – chi l’avrebbe mai detto? – lockdown, termoscanner, smart-working, rider e revenge porn.
La squadra diretta dai linguisti Valeria Della Valle e Giuseppe Patota si fregia inoltre di aver tratto la maggior parte degli esempi “dall’uso reale della lingua” e di avere nel contempo ridotti “quelli da italiano in provetta, fondati su frasi artefatte che nessuno ha mai pronunciato o pronuncerà, ma che spesso rimangono depositate nei dizionari per inerzia”.
Insomma, uno sforzo ciclopico per forgiare né più né meno che uno “specchio del mondo che cambia”, frutto ormai maturo della “necessità di validare e dare dignità a una nuova visione della società, che passa inevitabilmente attraverso un nuovo e diverso utilizzo delle parole”. Eh sì, questa è una nuova Weltanschauung, non la solita impresa editoriale, per quanto prestigiosa, che lascia il tempo che trova!
A questo punto della narrazione, e per non sbilanciarci troppo nel nostro pur giustificato entusiasmo, ci vorrebbe una battuta à la Woody Allen di quelle che ti fanno tornare amabilmente sulla terra restituendoti il tuo self-control, ma al momento non mi viene in mente se non il famoso avvertimento di Nathaniel Hawthorne circa le parole e i dizionari: “Parole. Così innocenti e lievi quando stanno in un dizionario, quanto potenti nel bene e nel male si trasformano nelle mani di chi sa combinarle”.
Il risultato del lavoro dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana è un’opera in tre volumi (Dizionario dell’Italiano Treccani, Dizionario storico-etimologico e Storia dell’Italiano per immagini) che sarà presentata in anteprima venerdì prossimo, 16 ottobre, in occasione della XXIII edizione di Pordenonelegge, Festa del Libro con gli Autori.