La primavera si sa, è la stagione in cui esplodono le allergie. Quella di cui soffre l’Italia, praticamente da sempre, non è però stagionale: si tratta di allergia alla cultura liberale ed ai suoi valori. Basta dare un’occhiata alla stampa italiana per capirlo. Un esempio perfetto (mancano solo gli starnuti) è l’intervista a Guido Maria Brera realizzata dal Corriere della Sera.
Un romanzo keynesiano
Brera, autore in passato del romanzo “I Diavoli”, da cui è stata tratta una serie in onda su Sky, spiega subito come la pensa. Parla della sua nuova opera letteraria e la definisce “un romanzo keynesiano”, per poi dichiarare: “La vera guerra che non finisce mai è tra monetaristi e keynesiani. L’egoismo dei pochi e l’interesse dei molti. La mano invisibile dei mercati e la mano tesa delle politiche pubbliche”.
Al netto dell’onestà e della chiarezza nel prendere una posizione ben precisa, Brera fa suo un concentrato dei peggiori luoghi comuni statalisti. Chi infatti disprezza le legittime ambizioni e sogni dell’individuo si limita a descriverlo come egoista, senza tra l’altro spiegare né cosa intenda per egoismo né cosa ci sarebbe di sbagliato nell’esserlo.
In difesa dell’egoismo
Se egoista è colui che cura i propri interessi e agisce per realizzare i propri obbiettivi, allora non si capisce cosa ci sarebbe di male. La filosofa Ayn Rand ne ha parlato in suo libro, non a caso intitolato “La virtù dell’Egoismo”, proprio per ribadire un principio essenziale del liberalismo: l’essere umano, il singolo individuo non è una pedina sacrificabile in nome di fantomatici interessi superiori o di un inesistente bene collettivo, non è un mezzo ma è egli stesso un fine. L’individuo si comporta secondo natura quando agisce in modo razionale per dare a se stesso obiettivi e raggiungerli, così da appagare la propria stessa esistenza.
Solo una concezione socialista, dunque statalista, dunque di per sé totalitaria, può vedere in modo negativo chi lotta per realizzare se stesso competendo con gli altri con le abilità ed i mezzi di cui dispone.
Se invece secondo Brera l’egoista è l’essere atomizzato e isolato da tutto e da tutti gli altri, è semmai vero il contrario: proprio perché ciascun individuo è unico e irripetibile nella sua esistenza, diventano essenziali le relazioni tra i singoli che hanno bisogno gli uni degli altri nella loro unicità.
Dove prevale una visione collettivista i singoli non sono altro che formiche operaie in un gigantesco formicaio: tutti uguali, per cui la perdita di uno è irrilevante ed indifferente al sistema.
Quella frase così retorica sulla contrapposizione tra egoismo dei pochi ed interesse dei molti riassume, più di mille trattati di sociologia o di economia politica, i mali dell’Italia: l’ostilità verso chi lotta per affermarsi ed emergere, aspettandosi impegno e sacrificio dagli altri perché abituato a chiederli prima di tutto a se stesso, pronto ad assumersi le responsabilità dei propri fallimenti anziché dire genericamente che è colpa della società o del sistema.
L’approccio keynesiano
Da tale ostilità non può che derivare un approccio keynesiano, che infatti Brera rivendica con orgoglio. Keynes amava ripetere che nel lungo periodo saremo tutti morti. I risultati in Italia li abbiamo visti: politiche improntate ad un colossale spreco di denaro dei contribuenti, una burocrazia enorme ed inefficiente, un debito pubblico stratosferico. Gli autori di questo scempio non se ne sono preoccupati. Devono aver concluso che le conseguenze le pagheranno i nipoti quando l’Italia andrà in default. Loro nel frattempo saranno già morti, proprio come insegnava il loro maestro.
Una fedeltà al verbo keynesiano a dir poco commovente, che tradotta in numeri in effetti fa piangere: come ricorda Alessio Cotroneo dell’Istituto Liberale, l’Italia è al 74esimo posto su 180 nella classifica delle libertà economiche dalla Heritage Foundation, nel 2017 la spesa pubblica ammontava al 49 per cento del Pil, circa il 70 per cento dell’economia è intermediata dallo Stato, ci sono quasi 13 mila istituzioni diverse in cui lavorano 3 milioni e mezzo di dipendenti pubblici, la tassazione sulle imprese è la seconda più alta d’Europa al 59 per cento.
La dicotomia è tra individuo e Stato
Lo scontro dunque non è tra monetaristi e keynesiani (sembra completamente sparita dall’orizzonte culturale di Guido Maria Brera la Scuola Austriaca, che ha dimostrato l’impossibilità a livello teorico del socialismo e tanta influenza ha avuto sul pensiero anarco-capitalista), ma in ultima istanza tra individui da un lato che si scambiano beni e servizi sul mercato in modo pacifico e consensuale, e un gruppo di persone dall’altro che si fa chiamare “Stato” e che con la violenza si intromette nei rapporti tra i primi estorcendo una parte dei loro guadagni, con la comoda e sempreverde scusa di aiutare chi ne ha bisogno.
Una solidarietà coatta e imposta per legge insomma, che proprio per il fatto di essere obbligatoria perde ogni valenza morale positiva e altruistica.
Non è un caso infatti che nelle società anglosassoni, sinceramente aperte ai contributi dei singoli e alla meritocrazia, il settore della beneficienza sia enorme, proprio a partire dalla consapevolezza che non tutti possono farcela ma che tutti sono tenuti almeno a provarci, e che ciascuno sia a suo modo unico e speciale. Dove il singolo è al centro di tutto, ogni individuo conta, anche chi è ai margini del sistema produttivo.
Sorprende almeno in parte che tanta enfasi a queste posizioni sia data dal Corriere della Sera, un giornale che un tempo era punto di riferimento della borghesia liberale.
La peronista di sinistra…
Non stupisce invece quanto pubblicato su Repubblica. In un articolo uscito nel marzo 2021 il quotidiano ci parla con entusiasmo di Ofelia Fernández e si esalta a definirla la più giovane parlamentare dell’America Latina, quasi che essere giovani fosse un merito, una scelta, e non una semplice condizione anagrafica fuori dal nostro controllo.
Naturalmente Fernández ha le carte in regola per essere paladina del mondo progressista: peronista di sinistra e convinta abortista. Fosse una Milei qualunque Repubblica sarebbe rimasta in religioso silenzio.
Peronista si diceva, ossia convinta sostenitrice dell’intervento statale in economia, quello che ha fatto passare l’Argentina dall’essere tra i dieci Paesi più ricchi al mondo all’inizio del XX secolo ad una serie di default e crisi economiche. Una giovane già vecchia insomma, ma per Repubblica va bene così.
… e l’economista libertario
Si parlava di Javier Milei. Zero, per l’appunto sono le righe che Repubblica ha dedicato all’economista argentino che in meno di un anno ha fondato un nuovo partito, “La Libertad Avanza”, e si è classificato terzo alle primarie a Buenos Aires.
Milei è libertario, non crede al riscaldamento globale indotto dall’uomo, vuole meno stato, meno tasse, meno burocrazia e vuole chiudere per sempre la Banca centrale argentina. Ancora più imperdonabile, agli occhi dei radical chic delle redazioni giornalistiche in Italia, il fatto che Milei abbia riscosso notevole successo tra i giovani, attratti da una dialettica colorita (sua la frase “la società argentina è infettata dal socialismo”) e da un rinnovato interesse per politiche che difendano la libertà individuale.
Avvilente il paragone con l’Italia, dove il ministro dell’istruzione Patrizio Bianchi ha parlato di “pandemia dell’individualismo”, come se emanciparsi dalla massa inseguendo le proprie aspirazioni fosse una deviazione imperdonabile da curare, magari con una rieducazione per raddrizzare quei ragazzi che hanno difetti di fabbrica non conformi al sistema e non vogliono auto-castrarsi.
Fino a che il desiderio innato dell’individuo ad inseguire i suoi sogni sarà visto come una patologia, anziché il collettivismo che rende tutto uniforme e non lascia libertà di scelta, l’Italia continuerà ad essere malata ed allergica ad ogni ideale di libertà.