Viviamo in una società dove uno dei temi più ricorrenti nei mass media è quello del razzismo, una specie di spauracchio evocato molto spesso a sproposito per bollare comportamenti poco più che maleducati o comunque innocui (ma spesso anche per cercare di tacitare critiche serie, condivisibili o meno, concentrate ad esempio sulla diversità delle culture).
Un razzismo morale
Nei giorni scorsi lo spauracchio, come il lupo della favole è diventato tragicamente reale: il razzismo, quello vero, quello più agghiacciante si è manifestato in tutta la sua barbarie nella strage degli israeliani, una strage senza giustificazioni e senza il minimo rispetto per l’umanità delle vittime, uccise – riprendo l’immagine da Primo Levi (1919-1987), in “Se questo è un uomo” – come se fossero degli insetti nocivi da eliminare.
L’antisemitismo, o forse sarebbe più corretto dire l’antiebraismo è non solo una delle forme più violente ma anche una delle forme più subdole di razzismo, che coinvolge chi si lascia trascinare da esso in una spirale che spesso all’inizio assomiglia solo ad una critica non priva in alcuni di una superficiale benevolenza verso gli ebrei, ma che poi si trasforma, passo dopo passo, in una discesa senza fine nel male – e giunge sino a negare la stessa umanità alle sue vittime e a commettere, o almeno ad approvare i crimini peggiori.
Questo perché l’antiebraismo, a differenza di altre forme di razzismo quale ad esempio quello verso le persone di colore che ha caratterizzato in passato la società americana e quelle delle colonie europee, non è un razzismo fisico, ma un razzismo morale. Agli ebrei da sempre viene rimproverata non una inferiorità fisica o una qualche sorta di incapacità mentale o caratteriale, ma una forma di malvagità “innata” che nei secoli passati veniva espressa con le parole “perfidi giudei” proprie delle frange meno nobili della tradizione cristiana, e l’attualità ci dimostra che purtroppo questo pregiudizio morale non è certo venuto meno.
Israele da vittima ad aggressore
Di fronte ai drammatici eventi del Medio Oriente e alla perdita di tante vite innocenti, chi osserva (e ringrazia di non essere coinvolto) non può che sentirsi atterrito e augurarsi che le ostilità finiscano il più presto possibile. Nei combattimenti le colpe non stanno mai da una sola parte: la guerra è uno dei più grandi mali che affliggono l’umanità, uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse (cap.6, vv.3-4), ma ciò non toglie che anche in guerra esistano il torto e la ragione, che esistano le guerre giuste e gli attacchi criminali.
Ma questa che dovrebbe essere una valutazione quanto più possibile oggettiva e anche la via principale per cercare una pace, nel caso sia coinvolto lo Stato di Israele viene deformata dal pregiudizio antiebraico, secondo il quale, vista la innata malvagità morale degli ebrei, in qualche modo Israele ha sempre torto. Quando viene attaccato sta semplicemente scontando le colpe del suo imperialismo e della sua illegale occupazione delle terre altrui, quando reagisce non fa altro che confermare il suo imperialismo e perseverare in esso.
Molte persone prigioniere di questa mentalità, pur condannando le violenze disumane dei terroristi di Hamas, non sono riuscite ad evitare di giudicare Israele come il colpevole ultimo di quanto accaduto e, quando l’esercito israeliano ha iniziato la sua reazione, anziché basarsi sui fatti e considerare la stessa come una forma (magari criticabile in molti aspetti) di guerra giusta, si sono precipitati ad accusare lo Stato ebraico come il principale responsabile delle ostilità.
Triste esempio di questa mentalità, è stata ad esempio la velocità con la quale alcuni politici e alcuni mass media occidentali si sono precipitati ad accusare l’esercito israeliano di avere colpito un ospedale palestinese con un razzo, che è poi risultato essere stato lanciato dai miliziani di Hamas. Così la parte vittima (e vittima di un attacco che rinnega tutti i principi del rispetto e dell’onore militare) viene trasformata nell’aggressore.
E molti, imbevuti di questa mentalità, facendo un ulteriore passo verso il fondo, scendendo quella china senza fine del razzismo antiebraico che ho descritto, sono arrivati nelle manifestazioni di piazza o sui social ad inneggiare apertamente allo sterminio degli ebrei “colpevoli” di ogni male, riportando così indietro la storia dell’Occidente di quasi un secolo.
L’antisemitismo “tradizionale”
Ma da cosa deriva l’antisemitismo o l’antiebraismo che dir si voglia, perché prendersela con un popolo e una cultura ovviamente pieni di difetti e giustamente oggetto di critiche, non ultime quelle spesso doverose alla politica del governo israeliano (la principale è a mio avviso quella di non avere impedito che le cose giungessero a questo punto di rottura), ma un popolo ed una cultura che non rappresentano certo l’incarnazione del male?
L’antisemitismo cristiano tradizionale giunse raramente (anche se in qualche caso vi giunse) all’eliminazione fisica dei gruppi ebraici in Europa e in genere si limitò o all’espulsione o alla chiusura nei ghetti degli israeliti, rei di avere rinnegato il Redentore.
L’antisemitismo più feroce si è sviluppato però in epoca moderna ed è stato com’è noto quello nazionalsocialista: ma perché tanto odio? Perché in Germania, in uno dei Paesi più civili del mondo si sviluppò questo razzismo distruttivo e subdolo che, partito con un generico disprezzo per i ricchi ebrei, speculatori ai danni dei lavoratori tedeschi, giunse passo dopo passo fino ai campi di concentramento e alla “soluzione finale” del problema ebraico?
Possiamo provare a dire che il solo fatto di essere ebreo allora rappresentava la negazione dell’ideologia totalitaria nazionalsocialista, che come tutte le ideologie totalitarie era ammantata di buone intenzioni e voleva realizzare con la forza il paradiso sulla terra, rappresentato dalla creazione di una comunità di fratelli di razza e cultura tedesca dediti solo al bene comune (stabilito dalle direttive del partito).
Con questo ideale, tanto nobile in teoria quanto violento in pratica facevano a pugni la diversità culturale e la libertà degli ebrei, anche se cittadini tedeschi. L’essere ebreo significava non essere omologabile all’ideale totalitario e dopo la fase della rieducazione nei campi di concentramento (“Il lavoro rende liberi” era scritto all’ingresso di questi luoghi di tortura), si passò alla eliminazione, giungendo ad una delle peggiori aberrazioni della storia moderna.
L’antisemitismo woke
Ma perché l’antisemitismo o l’antiebraismo è di nuovo così diffuso in un’epoca che ha ripudiato il nazionalismo esasperato che fu proprio dei nazisti e giustamente lo considera come una delle peggiori aberrazioni dello spirito umano? Purtroppo non si è mai liberi dallo spirito totalitario, che oggi, in maniera preoccupante sta assumendo le forme e i principi della cultura “woke” o politicamente corretta, la quale in questo suo antiebraismo sta dimostrando tutte le sue caratteristiche peggiori.
Ancora una volta l’essere ebreo di per sé diventa una colpa, oggi essenzialmente per due ragioni politicamente corrette: primo, l’ebraismo esprime un’identità culturale ben precisa che contrasta in maniera plateale con la negazione di ogni differenza, di ogni particolarità tra gli uomini, che è propria della visione del mondo postmoderna che “appiattisce” gli esseri umani; secondo, l’identità ebraica e in particolare quella israeliana è una identità basata sulla cultura occidentale.
Cultura occidentale che caratterizza tutta la vita civile dello Stato ebraico attuale e che è un altro oggetto di “anatema” da parte della visione del mondo politicamente corretta che nega ogni valore alla storia, alle istituzioni e al pensiero della nostra civiltà, tutte realtà da “decostruire” per giungere a realizzare il mondo perfetto, un mondo perfetto che non contempla l’esistenza di stati basati sui valori liberal-democratici, e intesi come libere unioni di cittadini legati a valori comuni.
Così la cultura postmoderna, che vede razzismo, fascismo e nazismo dappertutto, ha finito con il partorire le piazze che invocano apertamente lo sterminio degli ebrei: tragici paradossi della storia, creati dall’infiltrarsi nelle menti di molti di quella sorta di cancro mentale che è l’ideologia, che in nome dei propri ideali astratti e assoluti giustifica ogni cosa.
In particolare, l’ideologia woke riversa tutto il suo potenziale “decostruttivo” nelle posizioni antiebraiche: da un lato essa, passando sopra con una sconcertante nonchalance a secoli di ricerca storica e biblica (ma la storia, si ricordi, per questa ideologia è solo un racconto fatto dai potenti che dominano la cultura), nega la stessa esistenza dell’Israele biblico (descritto nelle Scritture ebraiche e cristiane) nonché la presenza medievale e moderna degli ebrei in Palestina.
Dall’altro, in nome del relativismo culturale, in nome del fatto che tutti i punti di vista devono essere rispettati (la cultura woke non crede in una verità oggettiva, che deve essere anch’essa “decostruita” in quanto ritenuta frutto di oppressione delle élites cultuali), la visione dei terroristi aggressori di Hamas viene messa sullo stesso piano di quella delle vittime israeliane ed anzi in quanto visione tipica di una cultura non occidentale essa finisce per prevalere. Così, tornando al tragico episodio dell’ospedale colpito dai razzi, non importa che oggettivamente la responsabilità di Hamas sia stata accertata: se i terroristi affermano che la colpa ricade sull’esercito israeliano, la loro versione va accolta e rispettata.
La linea tra la doverosa (e sempre rispettabile) critica alle decisioni del governo israeliano, anche riguardo alla condotta della guerra, e l’antiebraismo che sfocia nell’odio e nella legittimazione dell’assassinio è forse sottile, ma chiara e netta: l’appoggio a Israele può e deve essere critico, ma quando esso si trasforma in condanna (più o meno sfumata), verso uno Stato che difende la vita dei propri cittadini nei confronti di chi non rivendica un territorio, che di fatto Israele ha in parte già concesso e che è disposta a concedere, ma vuole solo eliminare lo Stato ebraico e i suoi abitanti, ecco che l’antiebraismo si impadronisce delle coscienze e porta nei casi peggiori ad approvare (e ad acclamare) gli atti efferati che abbiamo visto.
La battaglia culturale
Chiudiamo con una speranza: forse il male ha toccato il fondo ed ha svelato sé stesso. Da un lato la ferocia dei terroristi non è riuscita a coinvolgere i Paesi arabi (compresi i palestinesi della Cisgiordania) che pur con molti tentennamenti sembrano restare attaccati, in attesa che passi la bufera, allo spirito degli Accordi di Abramo del 2020 conclusi grazie alla mediazione dell’amministrazione americana guidata da Donald Trump.
Dall’altro, molte persone già aderenti ai principi del politicamente corretto hanno condannato inorriditi i massacri in Israele ed hanno pienamente approvato la reazione militare dello Stato ebraico. Da questo abisso il mondo mediorientale, ma anche le società occidentali forse potranno uscire migliori, recuperando alcuni dei valori che troppo velocemente la cultura woke aveva nella sua presunzione “rottamato”.
E la battaglia culturale forse potrà essere un mezzo molto importante per difendere quella società liberale che non dipende dal vantato “mercato” (spesso utilizzato anche da potentati finanziari oscuri e legati a regimi totalitari), ma dai valori di libertà e tolleranza che la civiltà occidentale ha creato nella sua lunga tradizione e che vanno “ricostruiti”, e probabilmente un indicatore di questo miglioramento saranno il declino dell’ideologia antisemita o antiebraica che dir si voglia e la capacità di guardare in maniera anche fortemente critica, ma sempre rispettosa e quanto possibile “oggettiva”, alla cultura degli israeliti e alla politica degli israeliani.