L’Unione Sovietica, nel 1985, sembrava invincibile. La maggior parte degli osservatori delle vicende sovietiche erano consapevoli delle tensioni sistemiche interne, “contraddizioni” nel gergo marxista, ma pochissimi avrebbero scommesso su una imminente implosione del regime. A quei pochissimi appartenevano i piccoli e assediati circoli della dissidenza dentro e fuori il Patto di Varsavia.
Dissidenti snobbati
La maggior parte degli accademici occidentali, occupati a esaminare gli arcani meccanismi del Politburo, consideravano gli ideali dei dissidenti delle romantiche fantasticherie. Gli oppositori di Mosca potevano essere ammirati, ma non presi troppo sul serio. Vi furono, però, notevoli eccezioni, tra cui quelle di Zbigniew Brzezinski, Robert Conquest, Martin Malia, Richard Pipes e Robert C. Tucker, studiosi che non smisero mai di prestare ascolto ai dissidenti dell’Europa centro-orientale.
Yuri Glazov
A questa “controcultura” antisovietica, a lungo inascoltata e quasi sotterranea, si unì uno specialista in culture orientali, già professore di Indologia all’Università statale di Mosca, Yuri Glazov (1929-1998), un nobile umanista e un democratico militante. Nel 1968 si sentì moralmente obbligato a firmare Lettera dei Dodici, una lettera scritta e firmata da dodici dissidenti sovietici al Congresso Supremo dei Partiti Comunisti di Budapest, volta a denunciare le violazioni dei diritti umani.
Ben presto, a causa della Lettera e delle sue opinioni eretiche, gli fu negato il diritto di insegnare. Prima che il comitato disciplinare annunciasse la sua espulsione, tenne un appassionato discorso sulla repressione politica nel Paese.
Glazov, dopo essere stato inserito nella lista nera del regime e aver subito continue molestie da parte del KGB, nel 1972, lasciò l’Unione Sovietica insieme alla sua famiglia e si stabilì in Canada, dove ottenne una cattedra presso il Dipartimento di studi russi della Dalhousie University, in Nuova Scozia. I suoi interessi principali erano legati al ruolo dell’intellighenzia russa nell’articolazione dei discorsi e delle strategie di opposizione, alle dinamiche politiche interne dello stalinismo e del post-stalinismo, e alle tribolazioni interiori di coloro che rifiutavano di assecondare la “Grande Menzogna”.
La centralità dell’ideologia
Yuri Glazov è stato tra i primi studiosi a insistere sull’importanza di analizzare la psicologia dei leader sovietici per comprendere i processi decisionali del Cremlino. Molti studiosi occidentali, soprattutto negli anni Settanta, durante l’era della distensione, trattavano le istituzioni sovietiche come simili a quelle occidentali, ignorando volutamente la preminenza dell’ideologia nell’assunzione delle decisioni.
Yuri Glazov, come Aleksandr Solženicyn, comprese la centralità dell’elemento dottrinario nelle dittature comuniste. L’ideologia alterava la mentalità dei politici sovietici, rendendoli diversi da quelli euro-atlantici.
Mutazione antropologica
Glazov pubblicò, nel 1985, un libro davvero eccezionale, mai tradotto in italiano, intitolato The Russian Mind since Stalin’s Death. Prima che Glasnost diventasse, con Perestrojka, una parola d’ordine onnipresente, individuò nella ricerca della verità un metodo sovversivo per opporsi al sistema totalitario e recuperare dignità civica.
Per lui la caratteristica psicologica più importante del sovietismo era la paura, un senso di terrore e sospetto costante. Una sensazione sconosciuta ai cittadini delle società democratiche. Glazov si chiese: come si alimenta la macchina del terrore e della menzogna? In che misura questo sentimento di paura altera la natura di una persona?
Si tratta di domande inquietantemente attuali, alle quali Glazov ha offerto risposte straordinariamente persuasive. Paura e menzogna si intrecciarono e diedero vita all’Uomo Nuovo, l’Homo Sovieticus. Il comunismo non fu solo una rivoluzione politica e sociale, ma, cosa ancora più importante, una mutazione antropologica.
La “mente sovietica”
Uno dei capitoli più provocatori riguarda Yuri Andropov, l’ex capo del KGB succeduto a Leonid Brežnev come segretario generale nel novembre 1982. Andropov fu infatti il mentore di Gorbačëv e rimane in gran parte un mistero come abbia potuto ignorare il potenziale eretico del suo protetto. Per i lealisti del KGB, Andropov fu il vero leader sovietico, addirittura ottimale. Non sorprende, quindi, che Vladimir Putin lo adori e abbia incoraggiato la nascita, negli ultimi anni, di un mini-culto della figura di Andropov.
Le analisi di Yuri Glazov convergevano con quelle di un importante studioso di Stalin, il professore di Princeton Robert C. Tucker, autore di “The Soviet Political Mind”, un classico della sovietologia. Entrambi i pensatori capirono che, una volta estinto lo zelo ideologico, il sistema era destinato a fallire. Il degrado della fede si dimostrò un catalizzatore decisivo per la fine dell’intero sistema.
Dell’originaria utopia marxista-leninista non rimaneva altro che cinismo, confusione e disgusto per le promesse non mantenute. Per Glazov, il segno del crollo era riscontrabile nel fatto che perfino i burocrati del partito trattavano le mitologie ufficiali come simboli vuoti e soporiferi.
Niente cattura meglio la natura di quel sistema di una battuta citata dall’autore. Radio Yerevan chiese: “Cos’è il marxismo-leninismo, una scienza o un’arte?”. La risposta non si fece attendere: “Probabilmente è un’arte. Se fosse una scienza sarebbe stata sperimentata prima sugli animali”.
L’autocensura
Yuri Glazov morì di cancro il 15 marzo 1998, deluso dalla mancanza di una “Norimberga per il comunismo”, osservò con grande disappunto ciò che stava accadendo nella sua amata patria: l’occultamento dei crimini del regime, la chiusura degli archivi, la repressione della società civile, il riciclo dei funzionari del KGB ai vertici dello Stato.
Le sue illuminanti riflessioni dovrebbero essere lette da tutti coloro che non solo vogliano comprendere la relazione tra stalinismo, sovietismo e putinismo, ma anche da quanti intendano approfondire i meccanismi di autocensura all’opera nelle democrazie occidentali.