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Da cittadini a sudditi: l’incubo di una società sussidiata e divisa tra iper-garantiti e dimenticati

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Una delle evidenze più drammatiche segnate dall’incedere della crisi pandemica è la divaricazione sempre più marcata e feroce tra un ceto socialmente garantito e la restante parte della popolazione abbandonata al mare largo dello sforzo puramente privato per sopravvivere.

Dipendenti pubblici, pensionati e percettori a vario titolo e in vario grado di redditi (di cittadinanza, di emergenza) da un lato e dall’altro lato imprenditori, partite Iva, liberi professionisti che invece si dibattono nel corpo esausto di una socialità ormai straziata: una sorta di sdoppiamento della realtà in cui siamo calati, per cui i primi possono lamentarsi e soffrire le limitazioni alla libertà, di spostamento, la ristrettezza degli orizzonti senza però dover sopportare problemi di sostentamento economico, mentre sulle spalle dei secondi oltre a tutti questi problemi, di giorno in giorno sempre più gravi, si abbatte anche la tragica impossibilità di far quadrare i conti e di riuscire a portare il pane a casa.

Questa divaricazione in Italia c’è sempre stata, tanto che molti partiti più che per una propria, peculiare visione del mondo e della società si sono aggregati attorno a portatori di interessi e a classi sociali: alcuni partiti di sinistra si sono erti quali attrattori di ceti sociali da sempre iper-garantiti, e nella pandemia questo fenomeno si è radicalizzato e ha subito una palese accelerazione.

In alcuni casi sembra anche che la stessa scelta dei soggetti (o meglio, delle categorie) da sottoporre a vaccinazione prima di altri segua questa stessa logica rovesciata, tipicamente corporativa ed elettoralistica: il garantito diventa sempre più garantito, lo scarsamente garantito recede ad una condizione di assoluta minorità, ridotto a soggetto privo di attorialità politica, di consapevolezza civica, in quanto costretto ad aggirarsi tra le macerie fumanti per riuscire a sostentarsi.

C’è in questa tragedia il peso di una torsione davvero neofeudale, con un assalto ai ceti produttivi ridotti al silenzio e alla fame, e con la mano ‘gentile’ dello Stato che promette ed annuncia sostegni, ristori, aiuti, tutti funzionali al consolidamento del potere sovrano: d’altronde, l’affamato difficilmente morderebbe la mano di chi lo sfama.

In questo senso, la proliferazione di bonus e di sussidi sta facendo significativamente arretrare la coscienza politica e la sete di libertà di molti cittadini italiani; se il problema diventa quello empiricamente drammatico di sfamare i tuoi figli, le limitazioni alla libertà diventano quasi ancillari, un problema secondario.

La fenomenologia assolutamente diseducativa di questi redditi, a cui può aggiungersi quello universale richiamato come assoluta necessità di recente da Beppe Grillo, il loro portato anti-politico e anti-concorrenziale è stato a più riprese sottolineato da attenti analisti.

Nel 2018, per i tipi di Aracne, è stato tradotto e pubblicato anche in Italia il pregevole volume “Democrazie robotizzate. Usa e Ue: neofeudalesimo e reddito di cittadinanza”, di Raul Jimenez Tellado e Fernández Luis Moreno: una esaustiva e accurata analisi di come alta tecnologia, ristrettezza degli orizzonti fisici e cognitivi e sussidi alterino il paesaggio istituzionale fino a generare una società neofeudale con pochi signori sovrani e una massa di sudditi sussidiati ormai dimentichi di vita civile e libertà.

Si tratta di un inquietante scenario futuro che scienza della politica e studiosi della tecnologia vanno delineando con crescente forza negli ultimi anni: dal raggelante “Automating inequality” di Virginia Eubanks al recentissimo “The coming of Neo Feudalism” di Joel Kotkin, il quale ultimo libro ricomprende anche il modo in cui la crisi pandemica rischia di neofeudalizzare la globalizzazione e il suo ventre di silicio.

Non mi stupisce in questo senso come soprattutto dalle parti del Movimento 5 Stelle sin dall’inizio della pandemia si sia parlato di “opportunità”, innervando la narrazione con una serie di provvedimenti e di idee che vanno a parare esattamente nella terra di nessuno di questa congiunzione tra sussidi e alta tecnologia: d’altronde, basta percorrere il blog di Grillo per verificare questa montagna russa a base di smart cities, progetti futuribili, intelligenze artificiali, riduzione del lavoro umano e conseguente automazione delle linee di produzione, sussidi e redditi universali.

Non dissimile è l’approccio del ministro della salute Roberto Speranza che nel suo libro frettolosamente (ma non abbastanza) ritirato dal commercio in Italia e non sfuggito però ai magazzini di Amazon Spagna e Francia conclude la sua ricostruzione letteraria delineando nuovi progetti, un nuovo ministero, il ritorno del vento della sinistra, nei fatti e anche qui la solfa della pandemia come opportunità. Un complesso e stordente scenario di ingegneria sociale e istituzionale che nella pandemia vede un fattore di potente accelerazione di fenomeni latamente pre-esistenti ad essa.

Il problema enorme di questa visione del mondo è che dimentica per via, quasi fosse elemento ormai desueto e vetusto, la libertà nelle sue multiformi declinazioni: la libertà individuale, di espressione, e quelle collettive, e la libertà di impresa, del mercato, della concorrenza. Eradica il lavoro, visto e concepito come una minaccia, e lo sostituisce con il sussidio graziosamente concesso dal sovrano: lavoro come minaccia, già, perché nel lavoro si edifica il senso stesso di una comunità vitale e libera.

Non casualmente il sempre citato ma scarsamente compreso articolo 1 della Costituzione fonda proprio sul lavoro il nostro patto sociale. Il lavoro non è solo quello empirico e materiale, e d’altronde a quello si riferisce l’articolo 4 della Carta costituzionale, c’è anche un senso alto, metafisico quasi, del lavoro inteso come capacità di mettersi in discussione, di coltivare coscienza critica, di rendersi parte attiva della società. Il lavoro è competizione, sforzo, orizzonte di libertà. Il sussidio è la negazione di tutto questo, perché il sussidio sdilinquisce la complessità, il particolare, omogeneizza le differenze e ci rende tutti dipendenti dalla concessione, in messianica attesa che il potere sovrano si dimostri generoso.

Una democrazia in teoria dovrebbe basarsi invece su pluralismo, sete di libertà, vita attiva, partecipazione e sana competizione, non certo su regalie di sorta: la ‘lotta’ tra portatori di distinte visioni del mondo e di diversi interessi dovrebbe essere ricondotta a sintesi dalla razionalità parlamentare e dalla selezione delle classi dirigenti politiche e partitiche. Ma appare chiaro, entrambi questi fattori si sono arenati: il Parlamento non proceduralizza più nulla, incapace, debole ed auto-esautorato a favore di altri centri di interesse e di altri poteri.

In quanto ai partiti, infiacchiti, preda di crisi endemiche e squassanti, avvolti dal sudario dell’anti-politica che brutalmente colpisce qualunque forma di complessità, non riescono più a selezionare alcuna forma di classe dirigente. D’altronde basta ripercorrere i verbali delle discussioni parlamentari per verificare quale sia il tono medio delle argomentazioni, per non parlare poi delle leggi pendenti come eterni fantasmi e le cui proposte e il cui tono redazionale fanno davvero, molto spesso, orrore.

Dato questo quadro, la divaricazione tra ceti diviene una desertificazione dei riferimenti elettorali di alcune forze politiche che da sempre guardano alla libertà di impresa, e il consolidamento dall’altro lato, cioè a sinistra, delle proprie classi elettorali: una sorta di costruzione di un percorso vassallatico, stratificato e in cui ad ogni livello corrisponde un dato grado di possibilità di partecipazione alle decisioni politiche.

Sulle rovine di una Italia indebolita e stremata si sta consumando il definitivo tramonto della obsolescente democrazia di matrice parlamentare. Quando nei primi anni del Novecento un gigante del pensiero giuridico come Santi Romano vide la crisi dello Stato, prima nella celebre prolusione pisana e poi nel capolavoro “L’ordinamento giuridico”, essa era riferita all’erompere di una serie di forze sociali che chiedevano il loro riconoscimento in sede istituzionale: quella ‘crisi’ era davvero una opportunità, perché portò alla possibilità di un rinvigorimento della forza istituzionale e all’arricchimento competitivo delle istanze. Noi oggi viviamo al contrario una crisi che non ha nulla di quella ipotesi vivificatrice che Romano scorse tra le pieghe dei partiti di massa e dei sindacati e delle loro lotte sociali.

La democrazia come ‘conflitto’ e come competizione evapora, tra le volute di fumo dei lockdown e dei sussidi: disintermediazione totale, eradicazione degli interessi e dei corpi intermedi, annebbiamento delle prospettive e delle analisi della cittadinanza, piegata dalla necessità di mero sostentamento e adeguatamente sussidiata proprio affinché rimanga inerte e silente. La stessa pubblica amministrazione diventa solo un serbatoio di garanzia di sopravvivenza delle classi politiche egemoni. Sentir infatti parlare di nuove assunzioni nel settore pubblico non è poi tanto diverso dal discorso sui sussidi, va detto: e stupisce che la proposta arrivi da esponenti di un partito che si dice ‘liberale’. Stupisce e in certa misura indigna non tanto perché sia o possa essere necessario selezionare eccellenze ‘pubbliche’ cui far gestire i progetti del Recovery Plan, ma solo perché viene da chiedersi allora i dipendenti già in servizio cosa ci stiano a fare.

A questo punto invece si potrebbe pensare ad una assunzione per ogni licenziamento per scarso rendimento o per incapacità nello stare al passo coi tempi: un positivo ricambio non solo generazionale ma basato anche su effettive competenze e soprattutto in linea con l’ottimale svolgimento di una data funzione. Non accadrà, naturalmente. Perché il mantenimento dello status quo è utile per tutto quanto detto prima: per la rendita di posizione elettorale e di riferimento ‘politico’, per cui la pubblica amministrazione non eroga servizi ma garantisce semplicemente reddito a chi ne è dipendente, a prescindere da merito e capacità effettive. Un sussidio anche questo, appunto.

Che cosa fare quindi? Reclamare la centralità del Parlamento appare esercizio nobile ma retorico. Piuttosto dovrebbe essere rivitalizzata la sana competizione delle istanze e degli interessi, la costruzione di una società civile attiva, consapevole, forte, capace di influenzare il dibattito politico: l’individualismo è dato sacro ma la collaborazione in caso di crisi lo è ancora di più. In questo senso, le classi politiche devono essere pungolate, e per pungolarle bisogna dimostrare che il Re è nudo. Innanzitutto questa società civile libera si organizzi e inizi a chiedere conto, surrogando l’inerzia della politica, di quanto fatto e non fatto fino ad oggi.

I giudici stanno dimostrando che il tempo della pazienza e dell’accettazione di provvedimenti ‘eccezionali’ è finito: si chiedano quindi i danni, si ricorra, si impugni, si ottenga trasparenza, si denudi ancora di più il potere sovrano. Si portino in giudizio corpi tecnici, virologi mediatici, cabine di regia prive di legittimazione democratica, quando le loro dichiarazioni e/o le loro decisioni fanno danni. E si faccia finalmente capire quanto il ceto egemone pubblico dipenda dagli introiti privati: senza la tassazione, infatti, la sfera pubblica, gli stipendi, i sussidi, i redditi, le pensioni non esisterebbero. Per farlo capire ci si organizzi, lo si dica, lo si scriva, lo si gridi ai politici quando essi chiedono il voto, si convoglino le migliori energie propositive e intellettuali verso iniziative come Mercatus, per operare una radicale detassazione. Perché se si parla di un contratto sociale, allora bisogna immaginare che vi siano obbligazioni per entrambe le parti in causa, per i cittadini ma anche per lo stesso Stato. Altrimenti non è un contratto sociale ma una mera imposizione coercitiva.

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