Dopo la conferma della crescita costante di quella etichettata come “destra”, a trazione leghista, che ne costituirebbe l’ala estrema, e la conferma dell’alleanza giallo-verde, la aspettativa coltivata da tutta l’opposizione di una implosione del governo, data per certa ieri, oggi si è evaporata. C’è sempre qualcuno che conta su quella tesi, posticipandola nel tempo, ma ormai i più si concentrano sulla spada di Damocle della procedura europea per debito eccessivo, che vanificherebbe qualsiasi illusione del duo Di Maio-Salvini di fare alcunché da qui all’autunno, costretti ad una immediata manovra finanziaria per alcuni miliardi.
L’opposizione della destra è di maniera, condividendo molto della politica leghista e attendendo la caduta del governo, ma senza fretta alcuna, perché mentre con la Lega fa il pieno nelle elezioni regionali ed europee e conquista capoluoghi e comuni nelle elezioni amministrative, si affanna a ridisegnare la propria articolazione, con Fratelli d’Italia intesi a marginalizzare Forza Italia.
L’opposizione della sinistra, cioè sostanzialmente del Pd, è frontale, con una guerriglia continua contro qualsiasi iniziativa del governo, che, di diritto e di rovescio, avvelenerebbe il clima, alimentando l’odio rispetto al diverso, infrangerebbe tutto insieme il diritto costituzionale, comunitario, internazionale, isolerebbe il Paese rispetto all’Europa e al mondo. Ma non sembra che renda, per quanto ostinata e ossessiva sia, perché è fatta a ricalco delle proposte della maggioranza, esaltandone inevitabilmente la parte di unica protagonista, senza offrire alcuna reale alternativa. Così il nostro Pd è costretto a mettere alla gogna l’elettorato, accusandolo d’essere molto di pancia e poco di cervello, sensibile al vento di un lontano passato, che non avrebbe mai cessato di soffiare, ma che ora si sarebbe fatto impetuoso e travolgente.
Si dia per scontato il limite del segretario Zingaretti, un po’ personale, per non essere un autentico buca-video, ma soprattutto politico, costretto a tenere insieme un partito dove il renzismo non è stato affatto archiviato, tanto da sembrare costituire una specie di handicap elettorale. Pare che abbia capito che per crescere dovrebbe cambiare il menù, ma ha paura di farlo, perché quel poco più del 20 per cento l’ha conquistato proprio in virtù di un messaggio radicale, di facile appello non più agli occhi di una classe di operai e contadini, come era una volta, ma a un ceto cittadino dotato di istruzione medio-alta e di un tenore di vita relativamente confortevole. Ha cercato di rinverdire il ricordo di Berlinguer, riprendendo come centrale la questione morale; ma da ultimo gli si è sgonfiata in mano, con lo psicodramma del Csm, che vede protagonisti principali due parlamentari dello stesso Pd.
La spinta ad accentuare ulteriormente il messaggio radicale – ritenendolo necessario a richiamare l’elettorato che si è astenuto – è forte sia all’interno che all’esterno del Pd, laddove è espresso coralmente dai media “amici”. Ad un allargamento sul versante moderato, servirebbe un nuovo partito, che peraltro, non dovrebbe nascere da una costola del Pd, sì da restare abbastanza nell’indistinto.
Quindi rinsaldare il partito, radicandolo maggiormente sul territorio e coniugandolo con liste civiche, ma mantenendo il programma all’insegna di una uguaglianza e di una solidarietà non costruita a misura di una realtà, se pur solo percepita. Ma forse è il caso di chiedersi se quel programma sia elettoralmente appetibile, proprio con riguardo ad alcuni temi strategici, quali il rapporto con l’Europa, l’immigrazione, la sicurezza.
Che senso ha in un Paese che non vuole uscire dall’Ue, con un ritorno alla vecchia e cara lira, ma che certo sente Bruxelles fredda e lontana, dominata dall’asse franco-tedesco, difendere a spada tratta l’imposizione di limiti finanziari che non hanno portato buona fortuna? Questo non è combattere il sovranismo, ma evocarlo, risvegliando un sentimento di identità nazionale, mentre sarebbe opportuna una linea più morbida, che, pur distinta e contrapposta a quella giallo-verde, mettesse in evidenza la debolezza della passata politica comunitaria, riconosciuta dallo stesso presidente della Commissione come fallimentare nel caso della Grecia. D’altronde non pare redditizio tifare per l’apertura di una procedura di debito eccessivo, dandola per certa, a meno che non ci sia una manovra aggiuntiva. Prima di tutto, se l’avanzata sovranista non è riuscita a scalzare l’alleanza dei partiti pro-Ue, tuttavia ha archiviato quella costituita dai popolari e dai socialisti, costretta ad allargarsi ai liberali (e ai verdi), con un esplicito riconoscimento del bisogno ineludibile di cambiare passo. Poi, è facile prevedere che, con la Brexit in atto, di cui è facile aspettarsi un serio contraccolpo sulla stessa Ue, è difficile pensare che quest’ultima voglia aprire un altro fronte con l’Italia, cioè con un Paese fondatore, terzo per popolazione e secondo nel settore manifatturiero. Si tratterà, cercando da entrambe le parti di mediare un compromesso onorevole, che può essere complicato, ma non riducibile a priori in un atto di resa senza condizioni da parte del Governo italiano.
E che senso ha condividere in toto il buonismo dell’attuale Pontefice nei confronti degli immigrati, per poi ignorarne anzi contestarne apertamente l’insegnamento in tema di famiglia, di aborto, di matrimonio ecc.? È chiaro che la maggioranza degli italiani non vuole tornare ai flussi incontrastati del recente passato, specie se di scarsa professionalità e di religione islamica. Questo senza lasciarsi convincere dei reclamati vantaggi costituiti da lavori di bassa manovalanza scansati dai nativi (perché non eliminarli progressivamente?) e da vantaggi demografici (perché non cercare di conciliare maternità e carriera, con una politica ad hoc?). Qual è la risposta del Pd? È una tendenza inevitabile; ma questa è solo una ammissione di impotenza. È a tutto oggi una percentuale limitata della popolazione; ma domani in ragione dei ricongiungimenti e dei più alti tassi di natalità può espandersi geometricamente, sì da far escludere fin d’ora forti incrementi aselettivi. È moralmente e giuridicamente giusta, per solidarietà nei confronti di chi fugge dalla guerra e dalla desertificazione; ma allora si dovrebbe ospitare mezza Africa, che nel 2050 avrà un miliardo e mezzo di persone. È un dovere salvarli in mare; ma allora perché non fermare i trafficanti di carne umana, invece di trasformare le ong in una linea di navigazione regolare dalla costa libica a Lampedusa. È necessaria una politica di integrazione seria; ma questa funziona solo se si tratta di piccoli numeri graduati nel tempo, non di grandi numeri tutti in una volta, che finiscono per ricadere sulla gente più periferica e marginale. È auspicabile una intesa europea per ridistribuirli secondo quote obbligatorie; ma questa si è rivelata abbastanza utopica, data la retromarcia anche di paesi non sovranisti, sì da lasciarci soli a gestire immigrati che appena sbarcati scompaiono nel nulla. D’altronde se è già un problema a gestire l’arretrato, quale costituito dagli immigrati irregolari, che non si riesce né a distribuire né a rispedirli ai paesi di origine, non pare coerente dar ingresso ad altri gestiti spregiudicatamente dai c.d. mercanti di carne e utilizzati propagandisticamente da certe ong, tipo Sea Watch.
Non c’è niente da fare se non limitare e selezionare le partenze, così evitando di trasformare il Mediterraneo in un cimitero. Questo il primo atto disincentivante il lungo viaggio non di rado mortale dal sub-Sahara alla Libia, che richiede il controllo delle coste libiche auspicabilmente realizzato tramite la Ue, accompagnato dalla gestione dei campi in Libia, l’apertura di corridoi umanitari per gli aventi diritto d’asilo e l’azione formativa e selettiva nei paesi che alimentano il flusso per gli emigranti economici.
È ancora che senso ha combattere la sicurezza entro le mura domestiche, confrontando una mera di difesa di beni e valori prettamente economici di fronte alla salvaguardia fisica dell’intruso, quando la casa è una cosa estremamente simbolica come conferma la percentuale di proprietari aggirantesi sull’85 per cento, una oasi identitaria rispetto alla realtà esterna più o meno estranea, per sé e per la propria famiglia? La violazione della casa viene percepita come una lesione intollerabile, che va compresa e non esorcizzata, perché automaticamente si è portati a identificarsi con chi ha tutelato quel bene, senza per questo chiedere il porto d’armi, perché, a parte l’estrema difficoltà nell’ottenerlo, è diffuso il timore di tenere pistole o fucili a portata di tutti. Quello che si dovrebbe evitare è tuffarsi a pesce sull’ultimo episodio, di un tabaccaio che ha ucciso un ladro, anticipandone la ricostruzione ancor prima della conclusione dell’autopsia; e, invece, dare fiducia alla magistratura, che ben potrà sollevare anche una eccezione di costituzionalità sul decreto sicurezza.
Criticare non basta, bisogna offrire risposte alternative, non insistendo sulla fallacia della realtà percepita, perché quest’ultima non è mai priva di una sua base reale, altrimenti resta solo la linea, tutt’altro che giustificabile per una forza politica che vuol essere competitiva in quella che è e resta una democrazia, cioè di dare la colpa al corpo elettorale. Buona fortuna.