Siccome il Russiagate – la campagna dei mainstream media Usa e l’indagine del procuratore speciale Mueller sui presunti legami tra la campagna Trump e il Cremlino per condizionare le presidenziali del 2016 – langue, non ha prodotto finora lo straccio di una prova, e anzi sta emergendo un FBIgate, da qualche giorno è emerso un nuovo “scandalo”: il Datagate. Stavolta però nel mirino non c’è solo il presidente Trump, ma anche Facebook e il suo ideatore: Mark Zuckerberg.
Ma procediamo con ordine.
L’obiettivo è sempre lo stesso: delegittimare l’elezione di Donald Trump, e il voto per la Brexit, dimostrando che qualcuno ha manipolato le menti di elettori creduloni e ignoranti. Non più, o non solo, gli hacker e i troll russi. Ora sarebbe stata la Cambridge Analytica, ingaggiata dalla campagna Trump su suggerimento dell’ex ideologo del presidente, Steve Bannon, anche ex vicepresidente della società stessa, a condizionare l’esito delle elezioni tramite il profiling di milioni di elettori iscritti a Facebook, i cui dati però sarebbero stati acquisiti in modo fraudolento. Facebook quindi sarebbe colpevole di essersi fatta “rubare” (o aver concesso) la sua merce più preziosa: i dati dei suoi utenti.
Si parla di dati personali “rubati”, ma è un’accusa ancora da provare.
E si parla di utenti Facebook spiati e manipolati, quando semmai sono stati “profilati”.
La Cambridge Analytica è venuta in possesso dei dati illecitamente, o approfittando di una “falla” nelle policies di Facebook per la tutela della privacy? Non è chiaro. Così come non è ancora chiaro se, e in che modo, questi dati raccolti anni prima, e i profili da essi generati, siano stati effettivamente usati nelle campagne elettorali per la Brexit e per Donald Trump.
Certa appare invece la volontà dei mainstream media, a partire dal New York Times e dal Guardian (già protagonisti nell’alimentare il Russiagate…) di rappresentare l’elezione di Trump e la vittoria della Brexit come frutto di manovre fraudolente e di manipolazione delle menti degli elettori.
Il tema della tutela della privacy degli utenti su internet, e sui social network in particolare, è maledettamente serio e non ce ne accorgiamo certo oggi. Il tema della manipolazione delle menti degli elettori e della “minaccia alla democrazia”, lo è un po’ meno, anche perché è piuttosto intermittente: emerge puntualmente quando le loro scelte non piacciono all’establishment e ai mainstream media.
In ogni caso, l’utilizzo di questi dati da parte della Cambridge Analytica avrebbe a che fare con il marketing, non con l’inganno o le fake news. Si tratta di raggiungere i potenziali acquirenti, non di “spiarli” o “manipolarli”. E di confezionare il messaggio andando incontro ai loro gusti. In parole semplici, i “Big Data” sono quei dati che gestiti da potenti algoritmi permettono di farci raggiungere da pubblicità mirate, quasi personalizzate, basate sulle nostre ricerche e sui nostri gusti, mentre navighiamo in internet. A volte con esiti ridicoli, a volte irritanti, altre volte davvero utili.
L’uso del data mining e del profiling nelle campagne politiche non nasce certo oggi. Se dopo la rielezione di Obama nel 2012 e fino a pochi giorni fa l’utilizzo dei “Big Data” veniva celebrato come una rivoluzione e i protagonisti di quelle campagne elettorali considerati geniali, oggi che quegli stessi strumenti potrebbero (il condizionale è ancora d’obbligo) aver aiutato Trump, vengono condannati come una “minaccia alla democrazia”. Il solito doppio standard. Che si tratti di Russia o “Big Data”, l’importante è continuare con la narrativa di Trump che ha “rubato l’elezione”. Né la sinistra né i media tradizionali sembravano particolarmente preoccupati però, quando ad usare le stesse tattiche era la campagna Obama. Nel 2012 proprio il Guardian concludeva che la campagna per la rielezione di Obama aveva fatto ricorso al mining dei dati Facebook per targetizzare gli elettori.
Come riporta il Washington Post, nel 2011, Carol Davidsen, direttore integrazione dati e media analytics per la campagna Obama, ha creato un database di tutti gli elettori americani utilizzando lo stesso strumento di sviluppo di Facebook utilizzato da Cambridge Analytica, noto come “social graph API”. Ogni volta che le persone usavano il log in di Facebook per accedere al sito della campagna, gli scienziati di Obama potevano accedere al loro profilo e alle informazioni dei loro amici. Questa tecnologia ha permesso alla campagna Obama di accedere alle informazioni degli elettori per capire “quali persone avrebbero avuto più probabilità di influenzare il voto delle altre persone nella loro rete”. “Non ci hanno fermati quando hanno capito cosa stavamo facendo”, twitta oggi Carol Davidsen, agggiungendo che Facebook ha consentito alla campagna Obama di “fare cose che non avrebbe permesso a qualcuno dalla parte opposta di passarla liscia”.
Insomma, ciò che è “geniale” per Obama, diventa uno “scandalo” per Trump, ha osservato Ben Shapiro su The Hill. Vale per l’uso dei “Big Data”, così come per la politica di “reset” nei confronti della Russia.
Ricordate quando si diceva che Silvio Berlusconi vinceva grazie alle sue televisioni, perché facevano il “lavaggio del cervello” ai telespettatori creduloni e ignoranti. Un’analisi piuttosto superficiale, diciamo pure completamente sballata, dal momento che in un ventennio Berlusconi di elezioni ne ha perse quante ne ha vinte. Non è molto diverso dal sostenere che oggi tramite Facebook o Twitter si può condizionare l’esito di un’elezione ingannando gli elettori.
E’ stato osservato come mai nella storia delle presidenziali Usa un candidato, Hillary Clinton, avesse il sostegno così compatto e convinto di tutta la grande stampa. Eppure, Trump ha vinto le elezioni. E le ha vinte, a prescindere dal profiling della Cambridge Analytica, certamente anche grazie alla sua abilità nell’uso dei social network, Twitter e Facebook su tutti, che gli ha permesso di aggirare la cattiva copertura mediatica mainstream e raggiungere senza filtri i suoi elettori potenziali. Il che ha scosso le certezze dell’establishment e i suoi vecchi criteri interpretativi. Oddio! Anche i populisti e i nazionalisti, le forze politiche anti-establishment, sanno usare i “Big Data” e i social media! Minaccia alla democrazia!
Da molto tempo i cosiddetti “giganti del web” sono diventati scomodi, anzi una vera e propria minaccia per i “poteri” costituiti, mediatici e politici. Soprattutto i social network e, naturalmente, il primo di questi per diffusione e capillarità: Facebook.
La minaccia è duplice: da una parte colossi multinazionali come Facebook e Google tolgono mercato pubblicitario, quindi risorse economiche, ai media tradizionali, i grandi gruppi editoriali e i network televisivi. Dall’altra, i social media sono “pericolosi” perché riducono l’influenza dei media tradizionali, scardinando la loro comunicazione up-down e aggirando il loro potere di agenda setting, ovvero la capacità di determinare i temi al centro del dibattito pubblico, il modo in cui vengono trattati ed i soggetti titolati a “fare opinione”.
E’ evidente che i social media spaventano un establishment abituato da decenni a veicolare e gestire il consenso attraverso i canali mediatici tradizionali – grande stampa e televisioni – e che invece è in grande difficoltà a muoversi nella realtà sfuggente e magmatica dei social network.
I social sono infatti un mezzo di comunicazione in cui il messaggio si diffonde non in verticale ma in orizzontale, tramite legami di amicizia e affinità sociali o politiche. Un passaparola amplificato e… spietato (il minimo passo falso può dar vita a una ridicolizzazione virale).
Gli utenti sono liberi non solo di confrontarsi, scambiarsi pareri fra loro, magari scoprendo in tempo reale che anche i loro amici e contatti hanno un’opinione difforme da quella rappresentata come prevalente e “corretta” dai media tradizionali. Ma anche di costruirsi autonomamente la loro “dieta mediatica”, l’insieme di fonti di informazione cui attingere, a seconda delle loro capacità, dei loro interessi e orientamenti. Dunque, proprio per queste dinamiche, tramite i social è più facile “scaldare gli animi”, rafforzare convinzioni già esistenti, piuttosto che mutare e manipolare le intenzioni di voto.
Il contrattacco di establishment e old media ai cosiddetti “giganti del web” e ai social network è duplice.
Da una parte sul piano fiscale. La Commissione europea, per esempio, ha appena presentato una proposta di web tax per costringerli a pagare le tasse laddove producono profitti, subito sostenuta dai “big five” (Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito). Una tassa del 3 per cento sui ricavi (non sui profitti!) da vendita di spazi pubblicitari (Google), da cessione di dati (Facebook) e da attività di intermediazione tra utenti e business (Airbnb, Uber), applicabile a società con fatturato globale superiore a 750 milioni di euro ed europeo sopra i 50 milioni. Bruxelles stima introiti per almeno 5 miliardi di euro l’anno.
Dall’altra, sul piano dell’immagine, screditando i social media, additati come responsabili della diffusione di fake news (quando anche i media tradizionali non sono da meno e spesso le fabbricano in casa) e di una “orwelliana” violazione della privacy, e quindi come minacce alla democrazia. Eppure, una campagna di stampa ben orchestrata di tradizionale character assassination è ancora in grado di distruggere chiunque, senza pietà e senza possibilità di difendersi.
Lo scorso gennaio, a Davos, il finanziere George Soros era stato profetico rispetto alle cronache di questi giorni: Facebook e Google “hanno i giorni contati”, sono diventate un “ostacolo all’innovazione” e una “minaccia per la società”. I social media “influenzano il modo in cui le persone pensano e si comportano senza che nemmeno ne siano consapevoli. Ciò ha conseguenze nefaste di vasta portata sul funzionamento della democrazia, in particolare sull’integrità delle elezioni”. Una class action potenzialmente miliardaria contro Facebook è già stata aperta negli Stati Uniti.
Le minacce alla democrazia liberale arrivano da molte parti, ma attenzione agli enormi interessi in gioco in questa battaglia senza esclusione di colpi tra old e new media che, c’è da scommettere, ci accompagnerà per molto tempo ancora.