Dalla guerra lampo allo stallo: obiettivo Usa non è una guerra prolungata ma la sconfitta di Putin

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Quasi con rammarico la stampa italiana parla di stallo della guerra in Ucraina. Se non ci sono notizie fresche di stragi o di contrattacchi ogni giorno, sembra quasi che sia finita, che non valga la pena. Lo stallo, però, esiste solo in un circo mediatico che si autoalimenta di emergenza continua, passato dal Covid ai bombardamenti di Putin senza soluzione di continuità. Non c’è stallo per i resistenti dell’Azovstal su cui ogni giorno i russi scaricano la loro potenza di fuoco, non c’è stallo per i rifugiati del Donbass, per i morti viventi di Mariupol, per Odessa colpita dai missili ipersonici. Ma non c’è nemmeno per gli stessi autori di questo massacro inimmaginabile nell’Europa del XXI secolo, (in)degni eredi della follia nazionalista di Milošević, Karadžić e Mladić, di cui si commemora in questi giorni il trentennale.

Alla parata militare del 9 maggio il parterre della nomenklatura russa sembrava tornato ai tempi imbalsamati dell’URSS. Tutti ad ascoltare un discorso piatto, prevedibile e sottotono, in cui Putin non trovava di meglio che nascondersi dietro la surreale definizione di “guerra preventiva”, soltanto l’ultima incarnazione propagandistica di una menzogna protratta da due mesi e mezzo. Oltre che un crimine, un errore strategico clamoroso che costerà alla Russia anni di isolamento internazionale e, probabilmente e auspicabilmente, al dittatore la sua permanenza al potere. Nemmeno il grande manipolatore, il revisionista-in-chief, ha potuto pronunciare la parola vittoria per qualificare un’operazione bellica disastrosa e insensata, in quanto a obiettivi e ad esecuzione.

Avril Haines, a capo dell’intelligence nazionale statunitense, l’ha classificata come una “guerra d’attrito” di lunga durata e ha previsto un’escalation nelle tattiche militari di Putin (“mezzi ancora più drastici”), viste le difficoltà nel venire a capo della situazione sul campo. Tra queste la probabile introduzione della legge marziale in Russia, che potrebbe essere la premessa di quella mobilitazione generale da molti annunciata prima del 9 maggio e risoltasi per il momento in un nulla di fatto. Haines ha poi confermato che tutto fa presagire un allargamento del conflitto alla Moldavia, tramite il “ponte terrestre” che i russi stanno tentando di realizzare tra il Sud dell’Ucraina e la Transnistria. Uno sviluppo annunciato, che solo la sconfitta dell’armata putiniana potrebbe scongiurare. Vincere per Kiev significa ricacciare gli invasori almeno sulle posizioni del 23 febbraio, dal momento che qualsiasi conquista territoriale di Mosca rappresenterebbe, oltre che un’inaccettabile mutilazione politica, una nuova piattaforma logistica per successivi attacchi.

Come abbiamo provato a spiegare a più riprese fin dall’annuncio dell’invasione (e anche prima), l’obiettivo fondamentale di questa guerra (il controllo politico-ideologico dell’Ucraina) non è mai cambiato, nonostante i ripiegamenti tattici. È stato semplicemente adattato alle circostanze del conflitto: se nei primi giorni la parola d’ordine era il regime change a Kiev, mano a mano che la resistenza ucraina si è consolidata Mosca ha applicato la sua ricetta a porzioni di territorio più limitate, in attesa di tempi migliori. Da qui il concentrarsi dello sforzo bellico sul tentativo di assicurare le posizioni nel Donbass e nell’oblast di Kherson, territori entrambi oggi a rischio concreto di annessione. Il massimo risultato che può ottenere la Russia allo stato attuale è proprio incunearsi all’interno dell’Ucraina, sottraendo alla giurisdizione di Kiev intere regioni e spaccando di fatto il Paese. Non solo Putin potrebbe presentare questo scenario in patria come una vittoria (anche se parziale) ma si assicurerebbe uno spazio vitale per la preparazione delle prossime offensive (che, nessuno ne dubiti, sono già in programma).

Per questo è fondamentale che i russi falliscano nel loro intento, in una parola che Putin perda la guerra e subisca un contraccolpo tale da impedirgli nuove operazioni militari a breve e medio termine. È esattamente la posizione americana, interpretata scioccamente dai vari pseudo-esperti come “volontà di prolungare la guerra”. L’obiettivo non è una guerra lunga, temuta da Washington come da Bruxelles per le sue inevitabili ripercussioni politiche ed economiche, ma la difesa dell’Ucraina e l’indebolimento militare della Russia anche a costo di una guerra lunga. Da qui le dichiarazioni prima del segretario alla difesa Lloyd Austin, poi di Haines, che ha insistito sulle responsabilità di chi ha voluto e provocato il conflitto, e infine dello stesso Stoltenberg (queste ultime riportate al rovescio dai soliti noti) che ha ribadito il supporto incondizionato al Paese aggredito sia in ambito difensivo sia in fase di trattative diplomatiche, sulla cui convenienza (e sui cui tempi) solo le autorità di Kiev potranno legittimamente decidere.

A Kharkiv si è verificato nei giorni scorsi il primo vero contrattacco delle truppe ucraine, con i russi costretti ad arretrare fino al confine. Anche se il grosso dell’esercito di Mosca è schierato ad Est, la perdita dell’avamposto settentrionale significa rinunciare ad un’importante base operativa proprio in prospettiva Donbass. C’è da attendersi pertanto una reazione russa che, se non arrivasse, segnalerebbe difficoltà perfino superiori a quelle già evidenziate.  Intanto i quaranta miliardi di dollari in aiuti militari sono diventati ufficialmente legge degli Stati Uniti. Francamente non si vede come Putin possa uscire dal tunnel in cui si è infilato.

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