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Dalla menzogna rivoluzionaria al doppio standard morale della sinistra 4.0

Zuppa di Porro: rassegna stampa del 13 febbraio

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Foibe, Rolex e ambasciatori sgraditi…

La menzogna in bocca a un comunista è una verità rivoluzionaria. In questa frase di Lenin c’è tutto il senso dell’etica politica della sinistra e del suo doppio standard morale che noi comuni mortali definiremmo ‘ipocrisia’.

Per il comunista, oggi progressista 4.0 ammantato di fuffolose sfumature e striature a tutela delle battaglie più improponibili e di diritti civili moltiplicati in maniera sub-atomica, la realtà fenomenica è un letto di Procuste su cui stendere i fatti, per piegarli, torcerli, modificarli, alterarli, sminuzzarli e renderli conformi al proprio interesse di bottega.

Il sol dell’avvenire e la emancipazione delle classi subalterne, come si sarebbe detto con linguaggio da anni settanta che gira e rigira già Paolo Villaggio in Fantozzi dipingendo il comunista grigio e barbuto Folagra aveva sbeffeggiato, chiamati a prevalere su ogni cosa. Se i fatti ci sono contro, tanto peggio per i fatti.

In questi ultimi giorni si sono accavallate tra loro tre vicende tanto diverse quanto accomunate da un fil rouge indubitabile: la strutturale propensione della sinistra a far sfoggio del proprio doppio standard, pur di sollevare polveroni e dar addosso agli avversari, anzi ai nemici vista la propensione del mondo progressista di nutrirsi di schmittiani nemici in senso oggettivo.

La prima è l’irruzione del digitalmente iper-attivo rettore in pectore dell’Università per stranieri di Siena: Tomaso Montanari. Nonostante diventerà effettivamente rettore solo a ottobre, da mesi le pacche sulle spalle dei companeros lo accompagnano nel cammino verso la salvezza del mondo dall’abbrutimento, dal classismo, dalla ingiustizia sociale e, last but not least, dal fascismo.

Montanari commenta tutto e scrive di tutto, specie su Twitter, ficcandosi in ogni polemica immaginabile.

Nella questione che qui ci interessa, ha riprodotto la vulgata riduzionista e giustificazionista sulle foibe tanto cara ai nostalgici del Maresciallo Tito, dietro lo schermo oleografico della ‘adeguata contestualizzazione dei fatti’ la quale gratta gratta sta a significare sempre e solo ‘se la sono cercata’: non a caso, nel suo impeto di emancipazione universale, e per emendare i peccati di noi Italiani reazionari e bigotti, ha pensato bene di motivare questo suo pensiero twittando il link al libricino di Eric Gobetti, autore la cui imparzialità è chiaramente e univocamente testimoniata dalla foto che lo immortala in posa ieratica e quasi-marziale (quasi perché si pone un problema costituzionale, non intendendo qui la Costituzione repubblicana ma la costituzione fisica non proprio soldatesca del Gobetti) con foulard titino e pugno sollevato al cielo, davanti l’effigie del suo prode eroe.

Insomma, in altri contesti si evocherebbe un qual conflitto di interessi, una non proprio disinteressata partecipazione emotiva, soggettiva e ideologica a quanto narrato, ricostruito e decostruito.

E dato che Montanari, figura istituzionale, ha ben pensato di sparare a zero su una ricorrenza istituzionale, legalmente riconosciuta dalla Repubblica italiana, seguito in questo da gente e follower che si sono prodotti in un imbarazzante calembour sulla vicinanza tra la Giornata della Memoria, che cade il 27 gennaio, e quella del Ricordo, che si celebra invece il 10 febbraio, quasi che questa seconda fosse stata istituita per sminuire la memoria dell’Olocausto, si è sollevato un giusto e comprensibile polverone.

E qui subentra la seconda fase della strategia del progressismo 4.0: il vittimismo. Chiaramente, le critiche, le richieste di dimissioni o di licenziamento, le firme in petizioni contro qualcuno, che so, il professor Marco Gervasoni da ultimo, possono essere avallate solo se proposte dal progressista, ma quando questa metodologia si ritorce contro il progressista stesso ecco le alte grida contro l’aggressione fascista, lo squadrismo, il ritornante Terzo Reich e compagnia cantante.

Se uno chiede le dimissioni di Montanari, lo stesso non rimane in silenzio pensando che tutto sommato quella richiesta è figlia della guerricciola innestata da lui, no, si passa alla fase due.

La lagna coi metaforici goccioloni agli occhi di chi vuol farsi compatire e battere altrettanto metaforiche pacche sulle spalle, dicendosi minacciato nella sua libera espressione, nonostante sia liberissimo di esprimersi sempre e comunque e su tutto.

Montanari si è dimenticato, chiaramente, quando lui firmava gli appelli contro Puglisi e Stagnaro, i consulenti nominati da Mario ‘Il nostro Bolsonaro’ Draghi, colpevoli di essere liberisti e quindi contrari all’interesse del proletariato internazionale e ficcati a bella posta per comporre un ‘gabinetto paleoliberista di destra’.

Montanari, sempre lui, torna protagonista, anche se in secondo grado, di altra vicenda assai istruttiva. Quella dell’orologio di lusso di Roman Pastore, un ragazzo ventunenne filo-renziano e prossimo candidato nel III Municipio di Roma tra le file della lista civica per Calenda Sindaco.

Pastore ha profili social in cui viene mostrato (i comunisti preferiscono parlare di ‘ostentazione’) uno stile di vita opulento, tra ricchi aperitivi in location esclusive, orologi di lusso e una generale atmosfera che sembra ricordare i romanzi del primo Bret Easton Ellis o di Jay McInerney.

La sua avversione al reddito di cittadinanza, in combinato con l’aver mostrato un costoso orologio da polso, divenuto nel dibattito pubblico un Rolex anche se Rolex non è, ha fatto deflagrare le masse progressiste 4.0 che si sono avventate su di lui con piglio poco encomiabile. Perché un conto è la critica e il voler ‘porre un tema’ o una questione politica, altro è dileggiare, mettere alla berlina e nei fatti aizzare i propri sostenitori che infatti non ci sono andati leggeri.

Per giustificarsi, quando ci si è accorti che la situazione stava sfuggendo di mano (scoprendo che l’orologio ad esempio era regalo del padre scomparso), si è detto e scritto che lo stesso Pastore aveva irriso magari con argomentazioni classiste Di Maio o i fruitori del reddito di cittadinanza: il punto è che, per quanto disdicevoli possano essere certe espressioni e non mi interessa difendere una persona che nemmeno conosco, un profilo con nemmeno trecento follower (adesso ha superato i 2000, ‘grazie’ alle polemiche) non vale, in termini di cassa di risonanza ed esercizio di un qualche potere comunicativo, come un profilo che di follower ne ha decine di migliaia e che spesso gode anche di accesso a tv e giornali.

Anche qui, quando la faccenda ha iniziato a ritorcersi contro gli alfieri del proletariato è subentrata la solita, sottile strategia del camuffare e intorbidire le acque e di buttarla sul vittimismo.

Memorabili le dichiarazioni della psicologa Barbara Collevecchio, raccolte dalla AdnKronos: dopo aver dato l’apertura delle danze sul Rolex-gate e aver esposto Pastore al mare largo di orde di sostenitori e follower che lo ripeto non ci sono andati leggeri, si è dipinta come la vittima di attacchi, minacce e strali subiti.

Ancora meglio ha fatto Christian Raimo che nel tentativo di razionalizzare la vicenda e di intellettualizzarla, altro vezzo dei comunisti che se non scrivono centocinquanta pagine per giustificare l’ingiustificabile si sentono persi nella desolazione e nella solitudine del cosmo, ha pubblicato un pezzo su Jacobin, mandando in visibilio, tra gli altri, Michela Murgia e Fabrizio Barca: Raimo, che è candidato nello stesso Municipio dove si candida Pastore e di cui quindi è concorrente elettorale (cosa questa che forse avrebbe fatto bene a precisare, ma ecco che la precisiamo noi), si profonde in una lunghissima e articolata disamina che già dalla premessa sembra venir fuori dalle righe del giornalino Lotta Comunista, distinguendo tra odio di classe e odio personale.

La storia ci insegna che l’odio di classe è anche sempre odio personale, visto che le classi sono composte da persone e che l’odio quindi si riverbera inevitabilmente sulle persone che compongono una classe: dai Kulaki ai ceti borghesi cambogiani, ad essere oppresse e sterminate, e prima odiate, sono state le persone, non le impalpabili classi. Ma chiaramente i comunisti preferiscono pensare, nella loro riscrittura fantasy della relazionalità umana, che sia possibile distinguere i due profili. D’altronde vivono di collettivi, di bene comune, di salute pubblica, il singolo, l’individuo non esiste e non conta nulla. È soltanto una piccola rotellina nel glorioso ingranaggio del sole rosso.

Non possiamo pretendere razionalità politica o coerenza filologica, considerando, come diceva Hayek, che se i socialisti capissero di economia non sarebbero socialisti. E qui vale lo stesso; se i comunisti davvero vedessero i fatti, o le esperienze storiche, per come essi sono smetterebbero di essere comunisti in una frazione di secondo.

Quanto sia pericolosa la china di questo loro argomentare e di certe distinzioni è evidente quasi a tutti. Il quasi raccoglie e ricomprende invece la solita cerchia di progressisti 4.0 che si danno pacche digitali sulle spalle, con enfasi, quasi fosse un gruppo di sostegno per individui sconfitti dalla storia e che invece devono rifriggersi l’idea di poter ancora oggi contare qualcosa, camuffando la lotta di classe sotto la petalosa e arcobalenata consistenza dei diritti civili e delle minoranze oppresse.

E c’è poi la terza vicenda, che ha molto da insegnarci sulla metodologia usata dal progressismo 4.0 quando si tratta di denigrare, colpire e distruggere l’avversario.

L’istruttiva ordinanza del Tribunale civile di Genova, del 25 agosto scorso, con cui si condanna al pagamento di oltre 7000 euro e a una astreinte, ovvero una penalità di mora, di 250 euro al giorno per ogni giorno di inottemperanza rispetto a quanto statuito nel dispositivo, il direttore di Next Quotidiano, Lorenzo Tosa, campione di un certo modo alla influencer di vivere il progressismo e i diritti civili.

Nel caso di specie, la condanna in sede di reclamo cautelare è stata azionata dall’ambasciatore Mario Andrea Vattani, difeso dagli avvocati Domenico Di Tullio e Naike Cascini entrambi del Foro di Roma, per tutelarsi da una petizione che Tosa aveva pubblicato su Change.org e fatto circolare. Una petizione che chiedeva alle autorità politiche di recedere dal proposito di nominare Vattani ambasciatore a Singapore.

Come rilevano i giudici, Tosa quella petizione l’ha fatta circolare persino troppo. Nella sua indignazione progressista infatti il direttore di Next era arrivato a inviare una mail, per convincere a firmare la petizione, anche ai familiari dello stesso Vattani. Un capolavoro, diciamolo.

Il tono e lo scopo generale della petizione sono ben enucleati dall’inciso iniziale, che infatti il collegio cita integralmente:

“La promozione di Mario Vattani ad ambasciatore italiano a Singapore è una vergogna inaccettabile. Nel 1989 Vattani – secondo la testimonianza di una delle vittime – partecipò alla brutale aggressione fascista che ridusse due ragazzi in fin di vita. A quell’aggressione presero parte almeno quindici militanti di estrema destra e portò ad almeno 4 condanne per lesioni. Vattani, prosciolto, fu l’unico a risarcire i due ragazzi massacrati con una cifra molto rilevante, ottenendo in cambio il ritiro del processo di rito civile. Vattani poté pagare quella cifra così rilevante perché viene da una famiglia molto influente: suo padre era il consigliere diplomatico di Andreotti”.

Sembra una appendice letteraria di Romanzo Criminale, a leggere bene. Vicende gravissime, accuse ancora più gravi e toni furiosi, quel ‘vergogna inaccettabile’ che echeggia e trasuda indignazione ancestrale e quasi religiosa.

Peccato, e lo rileva chiaramente il collegio, che tutto questo insieme di lamentele, accuse, aggettivazioni, che vennero pure accompagnate da una scarsamente informata interrogazione parlamentare da parte dell’onorevole Morassut, siano un patchwork di elementi che portano a veicolare, cito testualmente dall’ordinanza, una ‘prospettazione dei fatti opposta alla verità’

Opposta alla verità, ripetiamolo ad alta voce. Sentite come suona bene, e come suona, al contempo, male per i paladini del progresso ad ogni costo?

Ma non basta, perché, cito anche qui testualmente, ‘la petizione di cui trattasi nella parte esaminata costituisce un chiaro esempio di travisamento e manipolazione di uno specifico fatto storico, con il quale è stata realizzata una distorsione rispetto all’intento informativo dell’opinione pubblica’.

La petizione, riconoscono i giudici, utilizza elementi che non sono fatti e soprattutto fornisce una ricostruzione che non è conforme alla verità dei fatti processualmente statuita: infatti leggendo la sentenza di Corte d’Assise del giugno 1991, ci si rende conto che Vattani non venne riconosciuto da alcun testimone presente e che non fu semplicemente prosciolto, formula spesso equivoca e preludente magari tecnicismi e vie di fughe connesse a cavilli, ma assolto con formula piena.

Assolto con formula piena, con buona pace di Tosa e dei firmatari della stessa petizione, tra i quali figurano, udite udite, sempre lui, l’inossidabile Tomaso Montanari e pure Andrea Scanzi.

È chiaro che per quei firmatari Vattani sia colpevole comunque, sia un colpevole ontologico perché, nonostante sia un brillante diplomatico e abbia operato in aree geografiche e culturali come il Giappone di cui è grande conoscitore e dove non ci si può improvvisare nella competenza stante la complessità dell’ambiente culturale e istituzionale in cui ci si muove, non fa comunanza di fede progressista con loro.

E delle idee, vere o presunte, di Vattani si occupano sempre i giudici, rispondendo anche indirettamente all’interrogante Morassut e facendo presente che le stesse, pur se professate in gioventù, non richiedono una pubblica abiura o una qualche Canossa. Anche perché Vattani può vantare un eccellente stato di servizio e a quanto pare queste famigerate idee tanto sbandierate dalla petizione non hanno mai minimamente interferito con la sua attività istituzionale di apprezzato diplomatico. Comprese le attività musicali che alcune polemiche sollevarono, sempre da parte della stessa stampa e della stessa parte politica, e che si sono risolte, chiaramente, in un assoluto nulla.

D’altronde al progressista 4.0 non interessa la realtà e nemmeno la verosimiglianza delle vicende.

Scrivono i giudici in maniera espressa del carattere ‘dolosamente manipolatorio’ in cui il fatto narrato viene dipinto, descritto e ascritto, soprattutto, al Vattani che invece ne risultò del tutto estraneo.

Il collegio delinea un quadro sconfortante e sconcertante, di pura strumentalizzazione politica della petizione, roba questa sì da richiedere le dimissioni di chi l’ha ideata, fatta circolare e di chi l’ha avallata firmandola e dandole visibilità e pubblicità sui propri canali social. Ma chiaro, non accadrà nulla, perché per loro Vattani resta comunque colpevole e perché loro si percepiscono in missione per conto di Dio.

In fondo se uno rilegge quelle righe della petizione, ci si rende conto che al di là della infondatezza delle accuse, la strutturazione dei periodi, e la scelta dei termini, mira proprio a colpevolizzare la figura oggetto della petizione. A partire dalla evocata figura paterna ‘consigliere diplomatico di Andreotti’; che cosa suggerisca questa associazione di idee e di nomi penso sia chiaro a tutti.

La leggerezza con cui si indulge in queste tattiche è a suo modo sconvolgente, nonostante una certa parte politica ci abbia abituato a strumentalizzazioni, manipolazioni, distorsioni. Sono decenni che lo fanno, e certo non smetteranno.

Eppure sarebbe da ricordare, con Pier Vittorio Tondelli, che ‘basta una sola menzogna perché il dubbio travolga tutta una vita’.

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