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Dalla mitizzazione dell’Ulivo all’alleanza Pd-5 Stelle: svanisce l’illusione della vocazione maggioritaria

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A tutt’oggi la sinistra continua a vivere nella mitizzazione dell’Ulivo, come una stagione felice rievocata con grande nostalgia, ma una volta dato atto che permise di vincere due consultazioni politiche, nel 1996 e nel 2006, qui in una coalizione denominata l’Unione, c’è da aggiungere che il suo leader Romano Prodi fu costretto a dare le dimissioni in corso di legislatura per il venir meno, la prima volta, dell’appoggio esterno di Rifondazione comunista e, la seconda, del sostegno dell’Udeur.

Un lascito meno appariscente ma più importante rispetto al futuro, fu il ritenere che sulla base di quella esperienza fosse consigliabile dar vita ad un unico partito, fra le due componenti più importanti della coalizione di centro-sinistra, i Ds, già Pds e Pci, e la Margherita, già Dc e Ppi. Nacque così il Pd, che nel simbolo tricolore con tanto di rametto di ulivo intendeva rappresentare l’identità nazionale: il verde la tradizione laica e ambientalista, il bianco il solidarismo cattolico, il rosso il socialismo. Una sorta di contenitore unico, che – in forza di una estensione così ampia, tale da coprire l’intera area potenziale di centro-sinistra – aspirava a costituire una alternativa vincente. Ma trattavasi di una fusione fredda che dava per scontata la combinazione di culture e tradizioni diverse solo in forza della convergenza del personale politico dei Ds e della Margherita, presente nel Comitato dei quarantacinque, destinato a fissare il programma del futuro Pd, conciliando quelli ereditati dai due partiti, che precedentemente vantavano caratteristiche loro proprie vissute come identitarie.

Come l’esperienza post-bellica insegnava, a non pagare in termini di rendita elettorale non erano solo le scissioni, ma anche le fusioni, proprio per l’affievolirsi di quelle identità prevalenti o addirittura esclusive in cui la gente era portata a riconoscersi, cosa che la stessa vicenda del Pd avrebbe alla lunga comprovato. Mi limito ad un approccio approssimativo, che fra l’altro prescinde dal cambio della legge elettorale e rimane limitato ai risultati della Camera dei deputati. Nel 2001 (Mattarellum) l’Ulivo, con leader Francesco Rutelli, nelle liste proporzionali, raccolse il 34,94 per cento, di cui per il Pd 16,57 per cento e per Democrazia e libertà-La Margherita 14,52 per cento; nel 2006 (Porcellum), l’Unione, leader Romano Prodi, ebbe il 49,81 per cento, con al suo interno l’Ulivo, composto da Ds e La Margherita, al 31,27 per cento; nel 2008 (Porcellum), la coalizione di centro-sinistra, leader Walter Veltroni, raggiunse il 37,55 per cento, con il Pd al 33,18 per cento e l’Italia dei Valori al 4,37; nel 2013 (Porcellum), l’Italia Bene Comune, leader Pierluigi Bersani, ottenne il 29,18 per cento, con il Pd, nato dalla fusione di Ds e La Margherita, al 25,43 per cento; la lista Con Monti per l’Italia al 10,56 per cento, e i 5 Stelle al 25,76 per cento; e, infine , nel 2018 (Rosatellum), la coalizione di centro-sinistra, leader Matteo Renzi, raggiunse il 22,86 per cento, con al suo interno il Pd al 18,76 per cento, a fronte di una ulteriore avanzata dei 5 Stelle, saliti al 32,68 per cento.

Certo, fra le elezioni italiane del 2013 e del 2018 c’è stato il risultato di Matteo Renzi alle elezioni europee del 2014, che ha portato il Pd al 40,81 per cento, risultato dovuto al fascino del personaggio su un elettorato estremamente mobile, pronto a concedere come a ritirare il consenso più che al partito, all’uomo, visto e vissuto come capace di rassicurarlo. Un fenomeno ormai tipico anche nel nostro Paese, che si potrebbe battezzare come populismo, nel senso generico di un rifiuto della politique politicienne, non senza una componente anti-rappresentativa, ben testimoniata dal risultato del referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentati. Così definito esso può dirsi comune a destra come a sinistra, visto che l’exploit di Matteo Renzi sarà quasi ripetuto da Matteo Salvini nelle elezioni europee del 2019, con la Lega al 34,26 per cento, fino a raggiungere nei sondaggi sulla fine del Conte 1 più del 38 per cento. Né, sempre a prescindere dal profilo del singolo personaggio, appare troppo diverso l’affidamento rivelato dai sondaggi, ieri, per Giuseppe Conte e, oggi, per Mario Draghi.

Alle elezioni europee del 2019 il Pd di Nicola Zingaretti ottenne il 22,74 per cento, qualcosa di mezzo fra il 25,43 e il 18,76 delle elezioni italiane del 2013 e 2018, però su una linea in costante discesa, sì da poter concludere che la convergenza nel Pd dei Ds e della Margherita si è rivelata una operazione in perdita, non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente, perché tale da lasciare un partito a vocazione maggioritaria del tutto scoperto al centro. Ho parlato al riguardo di fusione fredda fatta con l’assemblaggio dall’alto di un programma scritto dall’apposito comitato, partecipato da rappresentanti autorevoli dei Ds e della Margherita, ma dal punto di vista che conta, quello organizzativo, sarebbe meglio parlare di una incorporazione della Margherita nei Ds, sì da risultare in un Pd, più che mai erede di un lascito ideale, accettato senza alcun esplicito beneficio di inventario, dal Pci di Berlinguer, attraverso il Pds e i Ds.

Grecia capta ferum victorem cepit. Cioè la Margherita catturata dai Ds, conquistò i suoi catturatori. Non per nulla guardando i principali protagonisti del Pd, è ritornata di moda la profezia scaramantica “moriremo democristiani”, dato che molti di loro hanno in comune la famiglia e la formazione cattolica, la militanza nella sinistra della Dc, con referenti Moro, De Mita, Zaccagnini, Martinazzoli, l’adesione al Ppi, la Margherita, al Pd. L’esempio più illustre è quello di Sergio Mattarella: figlio d’arte, di un deputato democristiano, formatosi nella AC, dopo aver percorso l’intero itinerario dalla Dc al Pd, solo dopo la nomina a giudice costituzionale dimessosi dal Pd, per poi essere eletto presidente della Repubblica nel 2015, succedendo a Giorgio Napolitano – questo protagonista di una storia tutta diversa, risalente al primo Pci.

Più o meno lo stesso si può dire di Enrico Letta e di Dario Franceschini: Letta, nipote del consigliori di Silvio Berlusconi, Gianni Letta, presidente dei giovani democristiani europei, vice segretario del Ppi nel 1997, deputato con La Margherita nel 2001, euro-parlamentare con Uniti con l’Ulivo nel 2004, deputato con l’Unione nel 2006 e col Pd nel 2008 e 2013, vicesegretario nazionale del Pd nel 2009, presidente del Consiglio dei ministri nel 2013, segretario del Pd nel 2021; Franceschini, anch’egli figlio d’arte, di un deputato democristiano, partecipe del movimento giovanile Dc, consigliere comunale, vice-segretario del Ppi nel 1997, eletto deputato con la Margherita nel 2001, con l’Ulivo, divenendone capogruppo nel 2006, con il Pd nel 2008 e 2013, segretario del Pd nel 2009, rieletto col Pd nel 2018, capo delegazione nei governi Conte 2 e Draghi.

Solo parzialmente diverso l’itinerario di Paolo Gentiloni e di Matteo Renzi: Gentiloni di formazione cattolica, ma partecipe alla fondazione di un gruppo maoista, poi confluito nel Pdiup, da qui un percorso moderato fino a divenire uno dei Rutelli boys, deputato con la Margherita nel 2001 e nel 2006 e con il Pd nel 2013, presidente del Consiglio dei ministri nel 2016, presidente del Pd nel 2019, commissario europeo nel 2019; Renzi, anche egli di formazione cattolica, iscritto al Ppi nel 1996, divenendone segretario giovanile nel 1997, presidente della provincia e sindaco di Firenze, segretario del Pd, presidente del Consiglio dei ministri, eletto senatore nel 2018.

Si può dire che la caratteristica che segna i vari protagonisti è la formazione cattolica e la militanza a sinistra a partire dalla loro collocazione nella Dc, condivisa da Mattarella, Letta, Franceschini, per poi percorrere tutti la traiettoria Ppi-Margherita-Pd. Tale militanza a sinistra risulta accentuata per Gentiloni, con una iniziale esperienza maoista, per poi ritrovarsi nella stessa sequenza Margherita-Pd; mentre, pur con una educazione cattolica alle spalle, Renzi trarrà dalla sua viva esperienza amministrativa una visione pragmatica, che lo porterà, come segretario del Pd e come presidente del Consiglio dei ministri, ad una apertura al centro, non per nulla assai pagante nelle elezioni europee del 2014. Solo che la sua caduta, seguita dalla fondazione di Italia Viva, ha finito per produrre nel Pd una controspinta ulteriore a sinistra, ad opera della componente ex-Margherita, formatasi nel clima della sinistra democristiana e destinata a rivelare una marcia in più rispetto quella ex-Ds, cresciuta nella lenta e traumatica trasformazione dal Pci al Pds, dai Ds al Pd, cercando di conciliare la continuità storica con la discontinuità ideologica e culturale.

Nonostante la continua rivendicazione da parte del Pd di essere un partito a vocazione maggioritaria, questa restava collocata all’interno di una coalizione di centro-sinistra, che però avrebbe richiesto l’esistenza di una formazione chiaramente dislocata al centro, quale appunto avrebbe dovuto essere La Margherita, almeno nella visione di Francesco Rutelli. Assorbita La Margherita, sfumata l’illusione che il nuovo protagonista, il Pd, potesse di per sé solo rivendicare una vocazione maggioritaria, è scattata la ricerca di una forza centrista, senza, peraltro, riuscire a trovarla, fino a far prevalere la cruda ragione delle percentuali elettorali rispetto a quella delle affinità culturali e programmatiche. Sarà questa alla base della alleanza Pd e 5 Stelle, che realizzata per mera tattica nel Conte 2, con ad unico motivo quello di evitare elezioni politiche destinate a veder trionfare il centrodestra, verrà via via trasformata in una scelta strategica, coltivata da Zingaretti e lasciata in eredità a Letta. Stando a Di Maio, i 5 Stelle vi giocherebbero il ruolo di un partito liberale e moderato, sì da doversi far carico del centro, lasciando al Pd tutto lo spazio a sinistra, fino a coprire l’area più radicale.

Così scritto il copione sembrerebbe ben congegnato, ma condannando a priori i protagonisti a giocar ruoli che non sono loro congeniali, perché Pd e 5 Stelle non sono affatto complementari, ma almeno parzialmente sovrapposti, dato che il primo continua a contare su un affidamento elettorale datogli da una sinistra protetta, abitanti dei centri delle grandi città, dipendenti pubblici, pensionati, mentre i secondi raccolgono un voto trasversale, ancora largamente protestatario. La mera somma delle percentuali oggi rivelate dai sondaggi non è affidabile, perché questi stessi sondaggi mostrano un significativo flusso in uscita dal Pd ai 5 Stelle, qualora questi siano guidati da Conte nelle consultazioni politiche.