MediaPoliticaQuotidiano

Dalla Panda di Mattarella all’autobus di Fico: il pauperismo è sceso in strada

Media / Politica / Quotidiano

Sono scene già viste: le fotografie e i servizi dedicati a Roberto Fico che si reca al lavoro in autobus, piuttosto che a piedi al Quirinale per dare il via al giro di consultazioni per la formazione del prossimo governo, così come le cronache che raccontano di un Luigi Di Maio che abbandona i lavori a palazzo per andare ad acquistare del toner per il suo ufficio. I giornalisti italiani hanno un debole particolare per chi indossa i panni della sobrietà e della quotidianità – seppur a favore di fotocamere e taccuini – e lo hanno dimostrato più volte nel recente passato.

Quando Mario Monti nel novembre 2011 venne convocato a Roma dall’allora capo dello stato Giorgio Napolitano per diventare poi presidente del Consiglio, le pagine si riempirono di descrizioni, aneddoti ed esegesi del loden che l’esimio professore indossava in occasione delle uscite pubbliche come premier in pectore. Il capo di abbigliamento divenne l’antitesi dello sfarzo e dell’esagerazione attribuita all’epoca berlusconiana. Scriveva per esempio Chiara Beria di Argentina su La Stampa in quei giorni:

“Il cappotto in loden è, del resto, la vera divisa per i maschi appartenenti alla borghesia milanese di stampo e tradizione calvinista; quella da ottimi studi anche all’estero, solidi matrimoni, volontariato e parche vacanze in montagna o nelle belle case sui tanto piovosi laghi. Una borghesia solida e colta (spariti gli imprenditori oggi è soprattutto composta da professionisti: medici, avvocati, professori universitari) che già aveva annaspato negli anni del boom di fronte all’impetuosa ascesa dei ricchi cummenda in paletot di cammello (dai Bonomi ai Rizzoli, dai Mondadori ai Moratti) e che nei lunghi e invadenti anni del berlusconismo, sembrava essere stata spazzata via”.

Poi è stato il turno della Fiat Panda di Sergio Mattarella: il giorno in cui venne eletto presidente della Repubblica, il 31 gennaio 2015, i siti internet pubblicarono gallerie fotografiche dove veniva ritratto a bordo della sua piccola automobile, che “colpisce osservatori e cittadini. E a voler dare retta ai simboli applicati alla politica, si tratta di un segno di sobrietà che viene apprezzato” (Carmine Saviano su Repubblica).

Dall’utilitaria al mezzo pubblico il passo è piuttosto breve. Il basso profilo è ormai quasi un’ossessione per chi racconta e, soprattutto, per chi fa politica. Le montagne di articoli e inchieste sugli sprechi della classe dirigente anche quando si trattava di spostarsi a bordo della auto blu hanno contribuito a far scaturire una giustificata indignazione nell’opinione pubblica, ma si è presto passati alla retorica e, come avvertiva già Giovannino Guareschi nel 1946, “la retorica ubriaca la masse, di qualunque colore esse siano, e le spinge e ricadere in errori fatali”. In questi meandri si infila con facilità un’idea di pauperismo (e sciatteria) che contagia i simboli che identificano un potere e la carica che lo rappresenta. La bandiera, lo stemma, ma anche l’auto, il volo di stato o, per rimanere a terra, pure la semplice cravatta: nella corsa a non voler apparire ciò che si è, ovvero un politico dei piani alti, scompare per esempio dal collo di un Roberto Giacchetti incaricato di presiedere i lavori alla Camera che hanno portato alla nomina di Fico. Tra i deputati non è obbligatoria, ma l’informalità è tutt’altra cosa – in compenso Di Maio non se la leva mai, nemmeno al pranzo pasquale in famiglia.

La legislatura è solo all’inizio, ma il gioco è ormai ben rodato e punta al ribasso: togliere, levare e avere di meno, con il rischio che generi un sentimento diffuso di rifiuto per l’avere e l’esibire ciò che legittimamente si possiede. D’altronde le prediche che giungono dal pulpito del blog di Beppe Grillo hanno questo tenore e il movimento che se ne fa portavoce è il primo partito d’Italia e sarà pietra d’angolo del prossimo governo, mentre gli altri si adeguano senza dare risposte.

Scriveva Tucidide: “Pensiamo che non sia un disonore riconoscersi poveri, ma che sia un’autentica degradazione non tentare di liberarsi dalla povertà”. Tra Panda e bus dell’Atac, in Italia il pauperismo è invece sceso per strada.