Stavo gironzolando fra tavoli e scansie di una libreria del centro, carpendone gli odori, come un ghiottone in un grande negozio di alimentari. Non so perché, mi fermai di botto a fronte di un lungo tavolone zeppo di libri sul fascismo, con alcuni riportanti, ben stampato in copertina, il volto macho del duce, con tanto di elmetto. Incuriosito, cominciati a prenderne in mano a caso, leggendone la quarta di copertina, con in bella evidenza il riassunto del contenuto. Non fu difficile accorgermi che vi dominavano due filoni. Il primo era più o meno nel senso che il fascismo non aveva fatto cose buone, dimostrazione che mi suonava eccessiva, perché una volta dato per scontato trattarsi di una dittatura che aveva portato l’Italia alla vergogna della legislazione anti-ebraica e della guerra tragicamente perduta, mi sembrava superfluo ritornare sul se avesse lasciato qualcosa meritevole di essere conservato, come, a mio giudizio, lo stile architettonico esaltato nel quartiere dell’Eur. Il secondo filone, che da subito mi attrasse, era costituito da una sorta di auto-esame, con un elenco più o meno lungo e sofisticato dei sintomi di una sindrome fascista, cui sottoporsi pazientemente. Non ci voleva altro per un ipocondriaco come me, per convincermi di averli quasi tutti, come quel personaggio del famoso umorista inglese, che avendo scorso, da cima a fondo, un trattato di patologia media, aveva concluso di avere tutte le malattie elencate, tranne il ginocchio della lavandaia.
Il che mi richiamò dolorosamente un paio di occasioni in cui ero stato sequestrato e etichettato come fascista dagli studenti, prima a Trento nel 1970, poi a Bologna nel 1977, per essermi rifiutato di fare l’esame di gruppo, nel quale uno parlava per tutti su un argomento scelto dal collettivo. Solo ora mi rendevo conto del giusto parere del Consiglio di Facoltà, che mi aveva messo accanto un collega controllore, senza peraltro farmi deflettere, da buon testone, dal mio comportamento. A quel punto incominciai a guardarmi attorno con sospetto, cogliendo lo sguardo duro e un po’ sprezzante di due signori parcheggiati ad una decina di metri di distanza. Riemergeva vivace il desiderio di fanciullo di ripararmi nell’abbraccio di un confessionale, ma non era cosa da preti, dovevo risolverla da solo, scavando fino in fondo nella mia coscienza. Ed ecco farsi vivo un peccato che ora mi appariva mortale, cioè di aver creduto alla falsa ricostruzione di Salvini, che lui si sarebbe affacciato del tutto ingenuamente al famoso balcone, per rincuorare la folla rimasta fuori sotto la pioggia; no, sapeva benissimo che cosa faceva, cioè un macroscopico atto nostalgico. Ma a questo punto non capisco perché ci si sia fermati ad una mera reprimenda, senza procedere alla rimozione del balcone; anzi, dato che in venti anni il duce aveva consumato fior di stivaloni, pontificando col suo vocione stentoreo in balconi, saloni, teatri, piazze e via dicendo, si sarebbe dovuto farne un inventario, per procedere almeno ad una riconsacrazione di tutti quei luoghi, affidandola all’Anpi.
Un peccato ne chiama un altro, altrettanto mortale, cioè di aver condiviso la tesi di Mieli, da lui esposta con quella che mi sembrava essere frutto della sua proverbiale saggezza, cioè che tutta la vicenda della fiera del libro era infelice e controproducente. Eh no, questa volta il nostro storico l’aveva proprio fatta grossa, perché se l’editore era lo stesso fascista da novanta, qualcosa doveva avere in sintonia con l’intervistato, quindi irrimediabilmente fascista anche lui. Allora, perché fermarsi a smontare lo stand di quell’editore; bisognava vietare la vendita del libro, che invece ne ha avuto una eccezionale pubblicità; e, perché no, bruciarne in piazza qualche copia, come rito espiatorio e propiziatorio.
Alzo uno sguardo circospetto e vedo che i due compari mi sorridono, quasi mi avessero visto dentro. Per darmi un contegno, afferro qualche libro e guadagno l’uscita. Respiro, ma improvvisamente mi ritorna un antico rito, non c’è confessione senza successiva penitenza… Che faccio? Mi agito per qualche minuto, ma poi mi tranquillizzo, per una intera settimana leggerò, la mattina, ogni singola riga di Repubblica; e vedrò, la sera, ogni immagine di Otto e mezzo, comprese le eventuali pause pubblicitarie.