Due presidenti e un vicepremier in Europa sono sull’orlo di una crisi di nervi, sembrano non reggere più le inevitabili pressioni che comportano le cariche che ricoprono – e fanno danni in casa e fuori.
Il primo presidente sull’orlo di una crisi di nervi è Emmanuel Macron, che non ha retto all’ennesima provocazione elettoralistica di un vicepremier – Luigi Di Maio – a sua volta sull’orlo di una crisi di nervi per il continuo calo di consensi registrato nei sondaggi a pochi mesi dalle elezioni europee. Il presidente francese non ci ha visto più e ha fatto richiamare il proprio ambasciatore a Roma, un atto formale che non ha precedenti dalla Seconda Guerra Mondiale. Ma non era stato lo stesso Macron, di recente, a definire “irrilevanti” i ripetuti attacchi dei due vicepremier italiani? Cos’è cambiato? Anche la sua mossa, che trasforma una crisi politica in affare di stato, appare esagerata e dettata da calcoli di politica interna, come d’altra parte lo erano i suoi primi attacchi all’indirizzo del governo italiano (la “lebbra” dei sovranisti e la “vomitevole” posizione italiana sul caso Aquarius).
A criticare la decisione di richiamare l’ambasciatore è l’editorialista del Financial Times Wolfgang Munchau, non sospettabile certo di simpatie sovraniste o populiste, secondo cui il presidente francese ha commesso un “errore”. Il fatto che Di Maio abbia incontrato uno dei leader più estremisti ed eversivi dei gilet gialli, arrivato addirittura ad evocare un colpo di stato militare per deporre Macron, viene indicato da Parigi come il motivo scatenante. Ma lo stesso diplomatico francese richiamato in patria è rimasto sorpreso dalla decisione e un ex ambasciatore in Italia ha dichiarato a Les Echos di ritenerla una “reazione eccessiva” e di breve durata. Cosa potrà mai accadere ora, se non il suo rientro a Roma? Rincuorato dalla ripresa nei sondaggi, Macron spera forse di rivitalizzare il suo fronte anti-populista, vuole dare di sé l’immagine di uomo forte che reagisce se provocato, ma la mossa rischia di ritorcerglisi contro: “È la tragedia degli europeisti – conclude duramente Munchau – che Macron, il più europeista di tutti i leader, agisca come un buffone”.
Per quanto riguarda le recenti uscite del vicepremier Di Maio contro Parigi, dal Franco Cfa come strumento del neocolonialismo francese all’incontro, appunto, con esponenti impresentabili dell’opposizione a Macron, stiamo assistendo a una rincorsa disperata e scomposta all’alleato-rivale Salvini.
Ciò che sconcerta, e ci rammarica, è che ce ne sarebbero di buone ragioni per un duro confronto anche polemico con Parigi, ma i cinquestelle sono riusciti a far diventare una macchietta persino uno scontro serissimo con la Francia, una vera e propria Guerra Fredda, che prosegue da almeno un decennio e praticamente su tutti i fronti. Basta elencare per titoli: Libia, migranti, Fincantieri-Stx, Tim, Mediaset, Mediobanca, Generali. Tutti dossier in cui sono in gioco non solo i nostri interessi economici ma anche la nostra stessa sicurezza nazionale. Sì, certo, è il mercato, bellezza… Peccato che le dure leggi del mercato in Europa vengano applicate agli avversari e interpretate per gli amici. Valgono al di qua delle Alpi, quando è l’Italia a doversi piegare alla logica dei “campioni europei” e subire lo shopping aggressivo delle proprie aziende in qualsiasi campo – dalla finanza all’agroalimentare, dalle telecomunicazioni alla moda – mentre vicende come quella di Fincantieri ci ricordano come nei pochi casi in cui sia una grande realtà industriale italiana a potersi permettere di fare shopping in casa altrui, allora torna a valere la difesa dei “campioni nazionali” e tutto si blocca.
Complice la nostra fragilità economica e l’irrilevanza politica in cui ci siamo relegati dalla crisi del 2011 (qualcuno forse pensava che il ricorso allo “straniero” per liberarsi di Berlusconi non avesse un prezzo?), i precedenti governi hanno ingoiato i bocconi amari quasi senza fiatare.
Abbiamo il diritto di difendere i nostri interessi nazionali, come tutti fanno in Europa, mentre da noi solo a parlarne si passa per miopi anti-europeisti, ma serve una strategia, una politica, non goffe e inutili sceneggiate. Criticare Di Maio, Di Battista e il M5S per i loro scriteriati attacchi che nulla hanno a che fare con la difesa del nostro interesse nazionale non può significare però chiudere entrambi gli occhi sull’aperta ostilità di Parigi nei confronti dell’Italia, che precede di parecchi anni il governo gialloverde, né perseverare in atteggiamenti di sudditanza, da “colonizzati”, come scrivere ridicole lettere di scuse o editoriali anti-italiani ed esporre bandiere francesi. Né può significare negare che sia Macron, in totale e smaccata continuità con i suoi predecessori, il più nazionalista e sovranista di tutti, sebbene sotto le mentite spoglie di europeista. D’altra parte, da sempre per i francesi l’Ue non è che un paravento delle loro ambizioni di grandeur e un moltiplicatore di influenza. Senza complottismi, eppure esiste, è minoritario ma influente, nel mondo intellettuale, politico, economico, giornalistico italiano, nella nostra classe dirigente, un “partito francese” che si muove per tutelare interessi, relazioni, legami comprensibilmente stretti e storicamente consolidati, senza troppo preoccuparsi se ciò significhi di fatto assecondare gli appetiti di Parigi e condannarci, come Paese, a una condizione di subalternità strutturale.
Un altro sull’orlo di una crisi di nervi è il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, che giorni fa, nel mezzo di una fase delicatissima dei negoziati tra Londra e Bruxelles, senza ancora alcuna certezza su un’uscita ordinata del Regno Unito dall’Ue a poche settimane dalla scadenza del 29 marzo, ha parlato di “un posto speciale all’inferno” per i promotori della Brexit (i cui voti a Westminster sono decisivi per l’approvazione di qualsiasi accordo). Al di là di come la si pensi nel merito, parole inappropriate in bocca al rappresentante più alto in grado dell’Unione europea, che denotano, probabilmente, una certa frustrazione per lo stallo. E una sopraggiunta consapevolezza, un rassegnato stupore che si leggeva nei suoi occhi, che ops… la Brexit sta accadendo per davvero e lo scenario no deal sta diventando molto probabile.
Questa improvvisa consapevolezza getta una luce preoccupante sull’intera strategia negoziale dei vertici Ue: due anni persi in una sorta di stato di negazione, nell’illusione di poter costringere Londra a tornare sui suoi passi. Sembrano scoprire oggi, invece, che non ci sono maggioranze a Westminster per il Remain, né per tenere un secondo referendum, dopo fiumi di inchiostro di retroscena e analisi che in questi due anni ci hanno spiegato il contrario. E aver tirato troppo la corda, continuando a umiliare Theresa May, premier pragmatica che dall’inizio lavora a una soft Brexit, ha solo reso più probabile il temuto scenario no deal.
Un funzionario Ue citato dal Financial Times ha ammesso che ormai il focus a Bruxelles non è più su come evitare una hard Brexit, ma trovare un capro espiatorio. E ciò che brucia è che si è probabilmente a una sola frase da un accordo, sul nodo del backstop sul confine nordirlandese, solo che l’Ue si è infilata in un vicolo cieco e non può permettersi alcuna concessione, pena la sconfessione totale della linea rossa fino ad oggi tenacemente difesa nella convinzione che sarebbe stata Londra a cedere.
Occhi puntati, quindi, sulla cancelliera Angela Merkel, la sola che con il suo pragmatismo e la sua sobrietà può ancora trovare una via d’uscita, mentre per Tusk consigliamo una terapia a base di camomilla.