EsteriQuotidiano

Dead Deal Walking. Trump affonda l’accordo, Iran all’angolo. E l’Europa?

Esteri / Quotidiano

C’è una premessa da tenere in considerazione quando si parla della decisione del presidente americano Donald Trump di ritirarsi dal Jcpoa, l’accordo tra Teheran e i 5+1 sul programma nucleare iraniano. Non è la parola dell’America a venire meno. E’ la parola dell’ex presidente Obama. Ed è il motivo per cui quando ci si riferisce al Jcpoa si parla di “accordo” e non di “trattato”. Costituzione alla mano, non impegna gli Stati Uniti. L’amministrazione Obama si è sempre rifiutata di sottoporre l’accordo al Congresso per farlo ratificare come trattato, ben sapendo che non avrebbe mai avuto la maggioranza richiesta dei due terzi del Senato. Il Jcpoa non è un trattato. Non è nemmeno un documento firmato. Discutibile persino che abbia un qualche valore legale per gli Stati Uniti.

Dunque, le premesse per l’affossamento dell’accordo le ha poste lo stesso Obama, non portando l’accordo al Congresso per la sua approvazione e nella fase dei negoziati ignorando deliberatamente ruolo e interessi di attori fondamentali, sia interni che esterni – i tradizionali alleati degli Usa in Medio Oriente e i congressmen repubblicani, che avrebbe potuto invece usare come ala dura per rafforzare la sua leva con Teheran.

Un altro fattore decisivo che ha portato il presidente Trump ad affondare l’accordo è l’aggressività dell’Iran nella regione, che si è impennata proprio a seguito del Jcpoa. Mentre l’ex presidente Obama aveva investito molto del suo personale capitale politico, scommettendo che l’appeasement avrebbe convinto Teheran a diventare un attore di stabilità in Medio Oriente, dalla conclusione dell’accordo è accaduto esattamente l’opposto: gli iraniani si sono scatenati. L’Iran è diventato come non mai una minaccia regionale e globale. Che straordinaria occasione ha sprecato per dimostrare di essere un attore responsabile e rientrare a pieno titolo nella comunità internazionale. Teheran ha invece approfittato della revoca delle sanzioni per incrementare le sue attività destabilizzanti in Medio Oriente. In particolare, ha usato i mezzi finanziari che non avrebbe avuto senza l’accordo per sostenere Assad e mettere le mani sulla Siria, minacciando Israele ai suoi confini; per rafforzare la sua presa sul Libano attraverso Hezbollah; per compiere un salto di livello nel suo sostegno ai ribelli Houthi nello Yemen, dotandoli di missili che possono arrivare a colpire Riad, la capitale dell’Arabia Saudita.

I difetti più volte citati dell’accordo – la scadenza temporale, i siti non accessibili agli ispettori, l’esclusione del programma di missili balistici – sono solo i sintomi di un fallimento del quale è il Jcpoa stesso la principale causa. L’errore è alla base: il sollievo dalle sanzioni subito, permettendo a Teheran di conservare intatta, solo posticipandola, l’opzione nucleare. Inoltre, l’accordo ha indebolito il quadro di proibizioni Onu sui test missilistici del regime, che non potrà essere ripristinato senza l’improbabile consenso russo e cinese.

Questi “danni” non possono essere riparati correggendo i difetti del Jcpoa, né includendolo all’interno di un accordo più esteso, come ha provato a proporre il presidente francese Macron. Per costringere l’Iran a rinunciare del tutto al nucleare e a mutare le sue politiche aggressive in Medio Oriente bisognava recuperare nella sua interezza la leva delle sanzioni.

L’amministrazione Trump sta mettendo Teheran di fronte a un bivio definitivo: una ripresa economica, grazie alla revoca delle sanzioni e alla riapertura di commerci e investimenti, ma al prezzo della rinuncia permanente, irreversibile e verificabile all’opzione nucleare. Oppure, proseguire con il programma nucleare e le attività destabilizzanti nella regione al prezzo della rovina economica, di una possibile guerra, rischiando il crollo del regime.

Cosa accadrà adesso?
Intanto, sono stati due giorni molto difficili per Teheran. Prima, l’uscita degli Usa dal Jcpoa. Quasi negli stessi minuti dover subire un raid – l’ennesimo – di Israele su una base iraniana nei pressi di Damasco. Ieri il premier israeliano Netanyahu a Mosca, invitato da Putin alla parata militare per l’anniversario della vittoria russa contro il nazismo. Da cui sarebbe uscito con le rassicurazioni russe che Mosca non proverà a limitare le azioni militari israeliane contro gli iraniani in Siria. Nella notte, il primo attacco diretto dell’Iran contro Israele: 20 razzi sparati verso le Alture del Golan dalle forze Al-Quds, dietro l’ordine del generale iraniano Qassem Suleimani. La risposta di Israele non si è fatta attendere: raid su decine di obiettivi iraniani in Siria, “il maggior attacco aereo compiuto negli ultimi anni”.

L’Iran potrebbe decidere di uscire dall’accordo, riprendendo a pieno regime le attività di arricchimento dell’uranio, rischiando però di provocare una escalation che potrebbe portare a raid israeliani o americani sui suoi siti nucleari. La resa dei conti, insomma. Oppure, gli ayatollah potrebbero anche decidere per una ripresa solo simbolica del programma nucleare, apprestandosi ad una rinegoziazione.

Si dice: la mossa di Trump non farà altro che alimentare i sentimenti nazionalistici rafforzando il regime. Ma non bisogna sottovalutare la natura delle proteste del dicembre scorso, non ancora del tutto arrestatesi. Non tanto, o non solo, la richiesta di libertà dei ceti medi e dei giovani delle grandi città, come nel 2009. Ma una protesta diffusa per le disastrose condizioni socio-economiche, degli strati sociali più bassi, anche nelle zone più religiose, conservatrici del Paese. Il governo viene esplicitamente accusato di aver sperperato i profitti dell’accordo sul programma nucleare in avventure all’estero, a sostegno di Assad, Hezbollah e degli Houti. Una sorta di “Iran First”, insomma.

Il primo obiettivo quindi per Teheran è contenere i danni economici della decisione di Trump. Casse vuote, valore del rial in caduta libera, investimenti in fuga per miliardi dollari, banche in crisi, centinaia di scioperi. Tutto questo ancor prima del ripristino delle sanzioni Usa sul programma nucleare (non automatico, dovrà comunque decidere il Congresso se e quando), a causa di altre sanzioni e soprattutto dell’incertezza di questi mesi sul futuro dell’accordo, che nel frattempo non ha permesso a Teheran di beneficiarne a pieno.

E l’Europa? Non importa quanto la Mogherini sia furiosa, Trump ha assestato un colpo probabilmente mortale al Jcpoa, e prima i Paesi europei lo capiranno, prima e meglio potranno elaborare una nuova strategia per difendere il loro interesse alla ripresa dei rapporti commerciali con l’Iran. Spiazzati, rammaricati, contrariati. Gli europei possono anche – commettendo un grave errore – sottovalutare la minaccia del programma nucleare iraniano, e di quello missilistico in combinato disposto, alla loro sicurezza, ma devono capire che se l’accordo voluto da Obama confligge con la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, loro principale alleato e architrave della Nato, e di Israele, non c’è modo di tornare al loro business as usual con Teheran e di preservarlo. Certo non fingendo che il Jcpoa non sia morto, o ripetendo che “funziona” e che è “il miglior accordo possibile”.

Il Jcpoa è di fatto un “morto che cammina”. Come hanno fatto capire sia il presidente Rohani che la Guida suprema Khamenei, se vogliono che Teheran resti nell’accordo, gli europei dovranno garantire all’Iran tutti i benefici previsti. In altre parole, rinegoziarlo per “supplire” all’assenza degli Usa. Ma sulla possibilità che l’Europa possa “far funzionare” l’accordo senza gli Usa, basta guardare alla situazione attuale: rapporti commerciali in stand-by e investimenti in fuga a causa della sola incertezza. Khamenei ha chiesto a Rohani una verifica con Francia, Regno Unito e Germania. Ma al di là delle reciproche rassicurazioni verbali, il “funzionamento” dell’accordo per gli iraniani presupporrebbe il ritorno al business as usual dell’Europa con Teheran, a rischio che le imprese europee incorrano esse stesse nelle sanzioni Usa. La “scelta” è tra avere accesso all’economia Usa, al suo sistema bancario, o commerciare con l’Iran? Che farà l’Europa?