Uno degli argomenti più usati per giudicare il possibile vincitore della trade war in corso tra gli Stati Uniti d’America e la Repubblica Popolare Cinese riguarda la differente forma di governo di questi due paesi, ovvero la democrazia e l’autoritarismo. Nella disputa commerciale in corso tra l’America e la Cina alcuni sono portati a giudicare la democrazia come uno strumento impari rispetto all’autoritarismo (ovviamente nessuno si riferisce all’autoritarismo come ad una migliore gestione della società, la discussione è puramente accademica). Ho sentito questa tesi molte volte, l’ultima proprio qualche sera fa durante una cena con un ex ministro degli esteri canadese ad Oxford (dove attualmente studio). Questo mi ha spronato ad interrogarmi sulla sua validità.
Cercando di essere il più sintetico possibile, riporto qui di seguito l’argomento così come mi è stato riferito. Ogni quattro anni qualunque presidente americano deve sottostare al giudizio degli elettori i quali possono scegliere se dare un premio al suo esecutivo garantendogli altri quattro anni di permanenza alla Casa Bianca, oppure al contrario se punirlo mettendo il suo avversario al 1600 Pennsylvania Avenue. In aggiunta a questo, e a differenza di molte altre democrazie, la Costituzione americana espressamente vieta a qualunque individuo di concorrere alla carica di presidente per più due mandati. Secondo molti, questi due aspetti rappresenterebbero una debolezza fatale per avere la tanto agognata vittoria nella guerra commerciale attualmente in corso, che richiede interventi duraturi. Non solo la carica di Donald Trump è a scadenza (egli non può rimanere in carica per più di due mandati), ma dopo soli quattro anni egli deve cercare di convincere gli elettori a rieleggerlo. Questa circostanza rende il processo democratico uno svantaggio nel condurre trattative commerciali, perché fa sì che per Trump sia meglio avere “le uova” oggi piuttosto che “la gallina” domani: ovvero che egli si debba accontentare di risultati poco ambiziosi e non risolutivi, secondo la sua visione, piuttosto che puntare a una soluzione vera e propria, in modo da poter avere qualcosa da poter vendere agli elettori per la propria rielezione.
Nel caso della Cina e del suo presidente Xi Jinping la situazione è molto diversa e per molti versi può apparire migliore. Come è noto, la Cina non è un paese democratico: i suoi leader e in particolar modo il presidente vengono nominati dalle alte sfere del Partito Comunista Cinese e non eletti dal popolo ogni 5 anni. Inoltre, nel marzo di quest’anno Xi Jinping ha deciso di abrogare i limiti temporali della presidenza tradizionalmente fissati in 10 anni in modo da poter governare il suo paese più a lungo, potendo così vantare il titolo di “presidente a vita”. Questa dilatazione temporale della Presidenza, secondo molti autorevoli commentatori ed esperti di Cina, permetterebbe a Xi Jingping di condurre le negoziazioni commerciali della trade war puntando direttamente al premio più ambito della “gallina” piuttosto che accontentarsi delle “uova”. La conclusione di questo ragionamento è chiara e inequivocabile: nella guerra commerciale la Cina è favorita, a causa del suo sistema autoritario, e l’America sfavorita a causa di quello democratico.
A mio modo di vedere questo genere di ragionamento è fallace. Il motivo è che sottolinea gli aspetti forti – che sono anche i più visibili – di un regime autoritario come quello cinese ma dimentica quelli negativi e più difficili da osservare. È sicuramente vero che uno dei punti di forza dei leader autoritari e non eletti come Xi Jinping è il loro decisionismo: non dovendo rispondere a niente e a nessuno tranne che a se stessi, hanno un margine di manovra molto più ampio di quello disponibile ai leader democratici. In altre parole, il presidente Xi può prendere decisioni impopolari ma decisive e vantaggiose per il suo Paese durante la guerra commerciale in completa libertà – decisioni che, per converso, Trump non può prendere. Eppure anche Xi Jingping non gode della libertà assoluta e deve anch’esso sottostare a dei limiti.
Primo, il potere di Xi Jinping si basa sulla sua capacità di rendere soddisfatti gli altri membri della classe politica del Partito Comunista in modo da prevenire possibili colpi di palazzo. In questo senso, la storia ci mostra come i colpi di mano da parte di chi risiede nelle prime o seconde file di regimi autoritari sono più frequenti di quanto si immagini. E forse si può addirittura spiegare proprio in quest’ottica la campagna anti-corruzione lanciata da Xi nel 2012: con la scusa di combattere la corruzione Xi ha rimosso e continua a rimuovere potenziali rivali da posizioni di potere. Però, così facendo Xi potrebbe piantare il seme della sua debolezza futura: più egli purga i suoi oppositori politici, più i suoi alleati diventano nervosi e diffidenti, credendo (a torto o a ragione) di essere loro i prossimi bersagli. Questo ha l’effetto di rendere il potere di Xi tutt’altro che stabile e orientato a obiettivi di lungo periodo, come spesso si crede.
Secondo, l’autoritarismo ha una grave pecca se paragonata alla democrazia: non è in grado di regolare la potenziale forza del dissenso. Nei regimi democratici il processo di elezione dei governanti opera come una valvola di sfogo per regolare il consenso/dissenso dei cittadini: se essi non sono soddisfatti dei propri governanti possono decidere di mandarli a casa e di selezionare altri al governo del Paese, mentre se sono soddisfatti possono rinnovare il loro mandato. Questo fa sì che per esprimere il proprio dissenso nei confronti di chi controlla la direzione politica ed economica del Paese, in democrazia i cittadini votino piuttosto che fare azioni dimostrative e figurativamente prendere le armi contro i propri governanti.
Non accade lo stesso, invece, nei regimi non democratici. Il motivo è che i leader di questi paesi non sono eletti. Dunque, non essendoci meccanismi per la regolamentazione e il controllo del dissenso, come il voto, capita che questo esploda in forme estreme e spesso violente. A ciò si aggiunga il fatto che una democrazia può permettersi di sbagliare, proprio a causa dell’elezione dei propri leader: un grosso errore a livello politico ed economico può mettere in ginocchio un presidente e la sua amministrazione, ma non certo lo Stato stesso. Al contrario, in un regime dispotico un fallimento economico e/o politico potrebbe facilmente portare al collasso dello Stato, data l’eguaglianza tra lo Stato e la figura del leader autoritario di turno, come nel caso di Xi Jinping, il cui “pensiero” è ora, ad esempio, parte integrante della costituzione. In altre parole, l’autoritarismo non è così stabile come si potrebbe credere.
Spero che i due punti sottolineati in questa mia breve riflessione mostrino come la democrazia sia a tutti gli effetti un sistema di governo migliore e molto meglio attrezzato per gestire le sfide di una trade war piuttosto che l’autoritarismo.