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Dietro la rivolta dei “deplorables” il malessere della democrazia Usa: la delegittimazione di mezza America

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Su quanto avvenuto negli Stati Uniti è già stato scritto e detto molto, forse troppo. Una questione, però, rimane sottotraccia nel vortice di emozioni e recriminazioni: quella della legittimità. Episodi come quelli visti il 6 gennaio sono indicatori importanti dello stato di salute del sistema, in particolare della liberal-democrazia. Quando milioni di persone ritengono truccato un risultato elettorale e arrivano a occupare il centro del potere politico (con l’approvazione del 45 per cento degli elettori repubblicani, secondo un sondaggio YouGov), forse è il momento di fare una riflessione seria e obiettiva sulla situazione.

Una premessa: chi guarda a Trump come responsabile primario di quanto avvenuto il 6 gennaio e negli scorsi quattro anni non ha compreso come si generano determinate dinamiche sociali e non fa altro che alimentare il circolo vizioso che ha portato alle violenze. La retorica di Trump ha sicuramente peggiorato il clima generale, e favorito indirettamente i disordini dell’Epifania, ma il malessere della società civile statunitense ha radici antiche e precede di molti anni l’ascesa di Trump. La prima domanda da farsi dovrebbe essere, dunque: quali sono le cause di tale malessere? Ma soprattutto, per quale motivo milioni di persone credono di non avere più voce in capitolo per quanto concerne la gestione del sistema? Perché qui risiede la ragione principale di quanto successo a Capitol Hill.

Milioni di persone sentono di non essere più legittime componenti del sistema. L’insieme è eterogeneo: da maschi bianchi, le cui vite sono state distrutte dalla globalizzazione, alla “destra religiosa”, passando per semplici repubblicani “classici”. A questo gruppo è stato detto, ripetutamente, negli anni scorsi, che le loro posizioni sono sbagliate, inaccettabili in una società civile; è stato detto che dovevano trovarsi un nuovo lavoro, magari in un bel settore green, o che dovevano abbandonare le loro concezioni bigotte della vita. È quell’insieme che l’allora candidata alla presidenza Hillary Clinton chiamò, infelicemente, basket of deplorables, inserendo in esso la metà dei sostenitori di Trump, decine di milioni di americani.

Tutto ciò è stato progressivamente alimentato non solo da alcuni politici, ma anche da media ed esperti, rendendo l’insieme di “deplorabili” sempre più incattivito. Non vedendo alcuna via per la riconciliazione con accettazione, né alcuna via per la fuga, di fronte all’opzione della sottomissione hanno preferito l’opzione Trump. La vittoria del tycoon nel 2016 avrebbe dovuto mostrare i rischi di una certa strategia politica e di una interpretazione del mondo manicheistica, ma ciò non è successo. Al contrario, la presidenza Trump è stata segnata da continui attacchi fondati proprio sulla presunta illegittimità dello stesso e delle sue visioni: prima era una presidenza illegittima in quanto la vittoria di Trump sarebbe dipesa dall’intervento russo, poi a causa di una telefonata ritenuta inadeguata al presidente ucraino. In generale, le posizioni di Trump – e di moltissimi repubblicani – sono state etichettate come non accettabili, ignoranti, razziste, illegittime.

Nello stesso momento, gli accusatori si sono mostrati, per fare un esempio, molto più timidi con riguardo alle devastazioni provocate per mesi da Black Lives Matter e militanti di estrema sinistra nelle città statunitensi. Fare notare, oggi, che mesi di violenze non adeguatamente condannate possono aver ulteriormente convinto un gruppo di fomentati a ritenere possibile l’assalto al Campidoglio è, naturalmente, impensabile. Anzi, addirittura provare a spiegare le ragioni per quanto successo l’Epifania viene considerato alla stregua di un tentativo di giustificazione, pertanto da condannare assolutamente. Lo spazio per il dialogo è ridotto al minimo.

È naturale che in questo genere di clima era impensabile aspettarsi che decine di milioni di persone che avvertono una progressiva esclusione dal dibattito pubblico avrebbero semplicemente accettato la vittoria di Biden. E non conta solo la realtà oggettiva ma anche, e soprattutto, l’immagine che ogni singola persona si costruisce della realtà, in anni o addirittura decenni. Il primo a capirlo è stato Biden stesso, che ha cercato di mandare timidi messaggi di riconciliazione. Tuttavia, l’assalto al Campidoglio mostra come sia diventata quasi impossibile una discussione obiettiva e pacata della situazione. Da una parte, la colpa viene data esclusivamente a Trump e ai Repubblicani; dall’altra, viene duramente attaccato chiunque provi a sostenere che la strategia adottata da Trump negli ultimi due mesi si è rivelata sbagliata o che parte della responsabilità di quanto accaduto e della crescente polarizzazione è anche sua.

Come si può uscire da una simile situazione? Non certo cancellando Trump da tutti i social network, un atto di censura non degno di una democrazia liberale, né promuovendo un nuovo tentativo di impeachment ora, a meno di due settimane dall’insediamento di Biden. Ciò contribuisce unicamente a gettare benzina sul fuoco. I rappresentanti democratici, però, chiedono a gran voce la rimozione di Trump dalla carica: anche in questo caso, è lo stesso Biden a essere contrario, ben consapevole di quanto una simile (inutile) mossa servirebbe solo a incattivire ulteriormente gli avversari politici, soprattutto ora che Trump ha concesso e assicurato una transizione ordinata.

A complicare ulteriormente il quadro, occorre rilevare che le dinamiche sopra presentate si collocano in un più ampio insieme di profonde trasformazioni sociali, economiche e politiche. In particolare, negli ultimi decenni si è assistito al progressivo scollamento tra élite e cittadini che ha portato alla crisi del sistema di rappresentatività e alla sfiducia diffusa nei confronti delle principali istituzioni democratiche. La fiducia nei governi e nei partiti è ai minimi storici sostanzialmente in tutto il mondo occidentale. In aggiunta, si assiste all’indebolimento dei corpi intermedi della società e alla deformazione della realtà, che assume sempre più i tratti di un reality show o si tinge di dinamiche settarie esplose anche grazie ai social network. Questi ultimi, in particolare, spingono sempre più le persone a chiudersi in bolle ideologiche, alimentando un processo di radicalizzazione costante delle posizioni, l’incapacità di discussione e la frammentazione della società civile. Se ancora all’epoca di Bush padre gli americani avevano un’opinione indulgente nei confronti degli avversari politici, negli ultimi tre decenni, e in particolare dall’elezione di Obama, il dato è crollato. Oggi il punteggio assegnato al “gruppo” avverso è 26/100 (contro quasi 50/100 di trent’anni fa). In Italia la situazione è perfino peggiore, con un voto medio assegnato agli avversari politici che si situa intorno a 15/100, con quasi il 50 per cento che assegna 0/100.

Anche nel caso italiano, dunque, è possibile rilevare una crescente polarizzazione con un malessere diffuso che sta radicalizzando sempre più le posizioni. Ciò non è dovuto, in prima istanza, a motivi economici, ma a motivi politico-ideali. Per fare un esempio banale, ma di immediata comprensione: come possono reagire milioni di italiani di fronte alla scelta di Netflix di suggerire, nella descrizione di Via col Vento, di cercare Black Lives Matter per comprendere meglio la situazione dei neri in America? Magari dopo aver visto scene di violenza causate dallo stesso movimento? Naturalmente, se fosse un singolo caso non si avrebbe alcuna reazione: ma anche in Italia, da tempo, alcune posizioni vengono marginalizzate e ritenute illegittime, altre vengono innalzate alla stregua di verità religiose.

Un noto opinionista italiano, ad esempio, ha approfittato di quanto successo negli Stati Uniti per scagliarsi contro il “privilegio bianco”. In risposta, è sempre più forte anche a destra la convinzione che l’avversario sia un nemico, qualcuno con cui non si può e non si deve discutere. La naturale conseguenza è un dibattito politico che assume più l’aspetto di un’arena di scontro tra fedi differenti, o tra gruppi sempre più portati a ritenere eretico e malvagio il pensiero altrui. È il motivo per cui molti, adottando spesso toni millenaristici, hanno dipinto Trump come l’ultima speranza e, pertanto, sostenuto la necessità di una lotta senza quartiere.

Per concludere, il primo passo verso la necessaria riconciliazione sarebbe il riconoscimento di tutte le posizioni che restano nell’ambito della legge come legittime e degne di attenzione e comprensione. Considerare chi ha assaltato il Campidoglio come una massa di “poveracci poco istruiti, marginali, facilmente manipolabili, junk food e fake news, marionette nelle mani di uno sciagurato”, sicuramente non aiuta né la comprensione di quanto accaduto né la riconciliazione. La questione, comunque, può essere ridotta a una semplice considerazione: tanto più il sistema è ritenuto legittimo, tanto più è solido. Al contrario, tante più persone si sentono escluse dal sistema, tanto più si rischia di assistere a episodi ben più gravi di quanto avvenuto a Washington. L’auspicio, pertanto, è che si torni a rispettare le posizioni di tutti, anche quando non sono gradite, evitando di ergersi a detentori della primazia morale o della Verità. Questo è l’unico modo, nel medio-lungo termine, per garantire la stabilità e la sopravvivenza stessa del sistema.

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