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Dietro la stanchezza americana anche gli errori di Obama e la controfigura Biden

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Dopo il disastro afghano, ci siamo accorti che gli americani sono stanchi. Stanchi, in primo luogo, di combattere guerre che, iniziate con grandi squilli di tromba, si sono in seguito rivelate dei pantani enormi dai quali è difficile (o addirittura impossibile) uscire. Stanchi di inviare soldati in ogni parte del mondo contando sul paravento delle “guerre democratiche”. E stanchi, anche, di combattere per interposta persona, dopo aver finalmente capito che le truppe locali, addestrate per sostenere le guerre al loro posto, combattono male o non combattono affatto. Si è visto prima in Iraq, ora in Afghanistan, senza dimenticare il caso del Vietnam nel secolo scorso.

Stanco si dimostra pure l’attuale presidente che, appena eletto, non riesce a trasmettere entusiasmo e sicurezza ai propri concittadini. Lo stesso avvenne con Barack Obama, dotato di una grande abilità oratoria, l’elemento di fondo sul quale costruì la sua fortuna politica. In poco tempo, però, cessò di essere il personaggio che incantò la folla in un memorabile discorso a Berlino, mentre il celebre slogan “yes, we can” finì ben presto nella bacheca dei ricordi.

Si discute molto, in questo periodo, circa le responsabilità della situazione che si è venuta a creare dopo la fuga da Kabul. Parecchi si chiedono se la colpa sia davvero di Biden, di Obama o piuttosto di chi l’ha preceduto (Trump e in particolare i due Bush). A me sembra una disputa oziosa.

A mio avviso, però, i due leader che avevano preceduto il primo presidente afroamericano della storia almeno avevano, in politica estera, una strategia ben delineata, e si erano scelti collaboratori adatti a metterla in pratica. In questo senso Joe Biden è soltanto una controfigura. Un politico di lungo corso, forse adatto ai periodi di routine, ma del tutto incapace di gestire situazioni eccezionali.

Rammentiamo, inoltre, che fu proprio Obama ad annunciare il ritiro delle truppe dall’Afghanistan con larghissimo anticipo, mettendo nei guai il governo di Kabul e galvanizzando i talebani, che si sentirono allora padroni del campo.

Coltivava, per finire, l’illusione di fermare gli islamisti utilizzando i droni e la potenza aerea. Strategia già fallita un sacco di volte ma, tant’è, le lezioni passate non sono servite a nulla.

Dopo Kabul, a me sembra chiaro che i rapporti tra un traballante Occidente e il resto del mondo non saranno mai più gli stessi. Gli americani dovrebbero riconoscere una volta per tutte che non sempre abbattere un dittatore è un’azione virtuosa sul piano della politica estera. E di cos’altro hanno bisogno per ammettere che l’imposizione della democrazia liberale in contesti geopolitici non adatti a riceverla è foriera di sventure?

Oppure, per dirla in termini più schietti: che cosa si è guadagnato eliminando Saddam Hussein e Gheddafi? E davvero si pensa che abbattendo Assad, come alcuni vorrebbero ancora fare, la situazione migliorerebbe? A volte si ha la sensazione che Biden, erede diretto di Obama, queste domande se le ponga, e che le sue risposte siano simili a quelle che daremmo noi. Siamo però in presenza di un Amleto che nulla ha da invidiare al personaggio di Shakespeare. Ed è questo, per l’appunto, il vero guaio.

Non vorrei sembrare troppo pessimista, ma è forse giunto il momento di riconoscere che la questione dei “diritti umani”, cavallo di battaglia della coppia Barack Obama-Hillary Clinton, interessa soltanto a noi occidentali. Non è invece giudicato un discorso importante nella grande maggioranza degli altri Paesi. Ivi inclusi alleati – teoricamente – di ferro degli Stati Uniti come, per esempio, l’Arabia Saudita e l’Egitto.

Troppe le differenze storiche e culturali per illudersi che un simile tema venga recepito in quei contesti. E ciò è ancor più vero in una società tribale come quella afghana. Meglio quindi rinunciare a parlare di diritti umani cercando, invece, di impostare i rapporti con tali Paesi sulla base di una realpolitik di stampo kissingeriano.

È possibile che Biden lo faccia, anche perché il suo vero problema è quello di rabberciare una società Usa ferita e polarizzata, in cui negli atenei vengono richieste attestazioni di inclusività e una rilettura totale della storia americana, fedele ai principi della cancel culture.

Si tratta indubbiamente di una sconfitta della democrazia liberale, che sopravviverà soltanto a patto di comprendere che la democrazia stessa non è un bene d’esportazione come il petrolio o le automobili. E non ci si illuda che sia l’Unione europea il soggetto destinato a sostituire gli Usa. Essa sinora ha potuto prosperare solo grazie allo scudo degli Stati Uniti, e riversando sulle spalle dei contribuenti americani la quasi totalità dei costi degli interventi all’estero.