Il discorso che il presidente del Consiglio prof. Giuseppe Conte farà oggi 5 giugno per illustrate il programma Lega-M5S non sarà come lo sgangherato “discorso del Re” del film di Tom Hooper. Conte è un professore articulate con lunga esperienza di arringhe nel foro di Firenze. Sa quindi come difendere in aula un programma che ha molti aspetti contraddittori, alti costi per la finanza pubblica e difficili coperture finanziarie. Metterà senza dubbio l’accento su misure come la drastica revisione dei vitalizi (per parlamentari vecchi e nuovi), il contenimento dei costi della politica, una nuova strategia per l’immigrazione, i provvedimenti per la sicurezza, ponendo l’accento su quelle parti del “contratto di programma” che sembrano maggiormente coerenti.
Temo che tra i temi il grande assente sarà quello della produttività, in ribasso in tutti i Paesi maturi ma in stagnazione da circa un quarto di secolo in Italia. Senza crescita della produttività, non cresce il Pil e le promesse del “contratto di programma” (anche una volta coordinate ed armonizzate) restano un libro dei sogni.
L’interrogativo di fondo è perché la produttività ha rallentato, o stagnato, nonostante il forte aumento degli investimenti in ricerca. È quanto avvenuto negli Stati Uniti, come documentato in uno studio collettaneo, guidato da John Fernald della Federal Reserve Bank di San Francisco. Una spiegazione è offerta da un nuovo modello teorico presentato da Daron Acemoglu del Massachusetts Institute of Technology (Mit) e da Pascual Restrepo della Boston University. Il loro lavoro distingue due differenti tipologie di progresso tecnologico: a) quello che rimpiazza lavoro con macchine (e che crea disoccupazione e abbassa le retribuzioni di chi lavora); b) quello che crea nuove, e più complesse, attività per uomini e donne (che invece aumenta la loro produttività e i loro guadagni).
Nella storia economica queste due tipologie si sono mosse quasi di pari passo, spinte dalle forze del mercato. Tuttavia, da tempo non sono in sincronia. Le determinanti sono molteplici: il capitale ha un prezzo basso (a ragione delle varie misure di Quantitative Easing) rispetto al lavoro, la fiscalità premia gli investimenti in capitale, l’attenzione delle imprese e della politica economica è soprattutto rivolta all’automazione e via discorrendo. In questi casi, si dà poco peso a nuove, e più produttive, attività per uomini e donne. Un altro elemento è che una parte significativa della forza lavoro non ha la formazione di base per essere addestrata ad affrontare le nuove attività; in questo caso, gli investimenti in ricerca e sviluppo non trovano un terreno da fertilizzare.
Un lavoro di Erik Brynjolfsson (anche lui del Mit) fa da complemento alle analisi di Acemoglu e Restrepo: quando si è alle prese con tecnologie che possono essere utilizzate in vari settori e per molteplici scopi (in gergo general purpose technologies) possono essere necessari anni perché si vedano i risultati, perché occorre non solo alfabetizzare, nelle nuove tecnologie, i lavoratori a tutti i livelli (dai più alti dirigenti alla manovalanza), ma si deve modificare “l’ambiente” (organizzazioni, gerarchie, procedure, prassi). È quanto avvenuto, ad esempio, in Europa quando negli anni Novanta e nei primi anni di questo secolo si ebbe l’introduzione diffusa della net economy, ma una proporzione significativa della forza lavoro non aveva la preparazione e ai piani alti di aziende e di Pubblica amministrazione si pensava di poter introdurre le nuove tecnologie senza modificare organigrammi, procedure e prassi.
Occorre ricordare che due economisti, che non si conoscevano e che non si leggevano – l’americano Charles Kindleberger e l’ungherese Ferenc Janossy -, in libri pubblicati all’inizio degli anni Settanta, individuarono nell’istruzione e nella formazione la determinante principale del “miracolo economico” italiano. Sarebbe difficile affermare oggi che l’istruzione e la formazione possano essere la leva per una ripresa inclusiva se non si pone rimedio a situazioni che si leggono sulle prime pagine dei giornali: edifici fatiscenti, insegnanti anziani e demotivati, bullismo nelle aule.
Eppure, l’istruzione è un investimento che conviene. Agli individui e alla collettività. I dati Ocse dimostrano che nonostante la forte riduzione del “premio salariale” (ossia quanto con una laurea si guadagna in più), in Italia l’istruzione universitaria ha un tasso di rendimento interno finanziario superiore al 10 per cento per coloro che arrivano alla laurea e non si fermano a un diploma di scuola secondaria. È un dato aggregato che tiene conto anche dei “fuori corso” e assume una durata media di sette anni per studi che, incluso il ciclo magistrale, dovrebbero concludersi in cinque anni. Quindi, chi si laurea “in corso”, ha un rendimento ancora maggiore.
Non è un guadagno solo per l’individuo ma per la collettività. Un’analisi della Fondazione Agnelli, sulla base di dati Ocse-Pisa (l’analisi condotta periodicamente sull’apprendimento e le competenze dei quindicenni in matematica e materie scientifiche, le uniche che si prestano a comparazioni internazionali) conclude che un aumento di apprendimento e competenze di 25 punti Pisa comporta cinque decimi di Pil all’anno in più, consentendo di abbattere in debito pubblico in meno di una generazione, aumentando la produttività e facilitando ricerca e innovazione. Sempre la Fondazione Agnelli, sulla base di dati Itanes (l’associazione che promuove ricerche e studi in campo elettorale), documenta come l’istruzione comporti un maggiore impegno politico e sociale.
Tutto ciò può sembrare ovvio. Sappiamo dalle analisi Ocse-Pisa che in Italia ci sono differenze marcate tra Nord (in certe regioni i quindicenni hanno un livello d’apprendimento in matematiche e scienze non inferiori ai loro pari nell’Europa centrale e settentrionale) e Sud (dove i livelli d’apprendimento sono i più bassi dell’Unione europea e sfiorano quelli del Nord Africa). Il nodo è cosa fare? A una scuola elementare a livelli qualitativi simili a quelli del resto d’Europa segue una scuola media di livello insoddisfacente e una tripartizione (licei, istituti tecnici, formazione professione) in cui solo i licei nel Centro-Nord hanno livelli di qualità pari alla media dell’Ue.
Nella funzione di produzione dell’istruzione, l’elemento centrale è l’insegnante. In Italia, si seguono metodi tradizionali, con una didattica spesso stantia, e senza incentivi a migliorare. Un programma per il cambiamento dovrebbe includere un vasto schema d’aggiornamento degli insegnanti in moderne tecniche didattiche interattive e nell’uso delle tecnologie oggi disponibili, nonché un allungamento degli orari per ridurre dispersioni e abbandoni. Unitamente a un sistema di carriere. Lo schema dovrebbe essere articolato su diversi anni, anche per distribuirne i costi. Potrebbe essere il miglior investimento per la crescita e l’inclusione sociale.
La conclusione immediata che si trae da queste analisi è che non basta l’attenzione su investimenti in ricerca e sviluppo (come nel programma Industria 4.0) se non c’è una pari attenzione alla formazione e una ferma volontà di modificare “l’ambiente dello sviluppo”.
Ciò richiede non solamente una migliore istruzione ma anche un forte programma di liberalizzazioni in un mercato del lavoro fortemente dualistico (tra insider ed outsider, ossia chi riesce ad entrare con un impiego a tempo pieno ed indeterminato e chi vaga tra lavori discontinui), in un mercato dei prodotti segmentato, in un sistema di distribuzione ed anche di produzione basato su micro aziende familiari, ed un parco di infrastrutture inadeguato.
L’Italia è un Paese dove sta tornando il brain drain. Il fascicolo in edicola del settimanale The Economist ricorda che a Londra ci sono tanti italiani quanto in una città di medie dimensioni del Belpaese. E’ la produttività che sfugge chi non si cura di essa.