In una celebre intervista, alla domanda “che futuro vede per l’Italia?” Indro Montanelli rispose: “Per l’Italia nessuno. Perché un paese che ignora il proprio ieri, di cui non sa assolutamente nulla e non si cura di saperne nulla, non può avere un domani.”
Pertanto non nascondiamoci, il nostro paese, l’Italia, è in crisi. Con la parola “crisi” spesso si intende un qualcosa di avverso, che ci pone in una situazione di instabilità, deterioramento e difficoltà. Pertanto, la crisi implica l’esigenza di saper cambiare e ci obbliga a trovare un nuovo modo di relazionarci con noi stessi e con gli altri. Se ribaltiamo la prospettiva di lettura e valutiamo il concetto di crisi con un occhio positivo, essa può senz’altro essere intesa come la necessità di un cambiamento e l’opportunità di una crescita, quanto mai indispensabile per poter modificare e migliorare la realtà italiana. Sono necessarie riforme politiche, fiscali, istituzionali e culturali per rilanciare la nostra economia e per trasformare l’Italia rendendola competitiva nel mondo.
Oltremodo importante, perché riguardante il settore della formazione, dovrebbe essere la facilitazione nella transizione dalla scuola al lavoro introducendo tirocini formativi al fine di promuovere esperienze lavorative durante il percorso di studi, oppure rilanciare l’istruzione tecnico-professionale e ripensare la formazione universitaria. La differenza con gli altri paesi risiede proprio nelle difficoltà che ha avuto il legislatore italiano a semplificare e a rendere più agevole il passaggio dagli studi, qualunque essi siano, al lavoro.
Se, infatti, da un lato si può notare un costante calo del tasso di disoccupazione giovanile (sceso di 7 punti nell’ultimo anno), dall’altro esso resta uno dei tassi più alti d’Europa e molti dei nuovi contratti sono a tempo determinato. Inoltre negli ultimi decenni c’è stato un forte incremento dei giovani che hanno proseguito il loro percorso di studi iscrivendosi all’università. Ad oggi, però, il 55% degli iscritti all’università è “fuori corso” e di questa percentuale il 20% accumula almeno tre anni di ritardo (dati Istat 2015). Pertanto, in media, gli studenti universitari ottengono la laurea triennale intorno ai 25 anni e quella quinquennale a quasi 27.
Questo grave squilibrio di età rispetto agli altri paesi, in cui si termina il percorso di studi intorno ai 24/25 anni e dove c’è una maggior facilità per lo studente ad essere inserito fin da subito nel mondo del lavoro, porta ad un ritardo e ad un “invecchiamento” precoce dei giovani. Inoltre all’estero gli studenti si abituano già durante il proprio percorso di studi ad una parte pratica e ad un approccio più critico nei confronti delle materie studiate.
In questi ultimi decenni, molte sono state le riforme in ambito lavorativo, ultima in ordine di tempo il “Jobs Act”, di cui possiamo affermare senza ombra di dubbio che ha fallito la propria missione; infatti, la riforma del lavoro firmata dal Governo del Partito Democratico non ha favorito i contratti stabili.
E appunto, se analizziamo più da vicino la situazione troviamo che i contratti a tempo determinato sono tornati a crescere più degli altri. Dati alla mano, nell’ultimo anno si registrano 350 mila contratti a termine in più, a fronte dei 60 mila permanenti. Se consideriamo il primo semestre dell’anno, su 1 milione di rapporti lavorativi in più, i contratti a tempo indeterminato sono solo poco più di 27 mila. Una quota bassissima. E se andiamo a fare un confronto con l’anno precedente (2016), sul totale sono persino calati (-4,3%).
Per tali motivi, analizzando tutto quanto sopra, sono necessarie da un lato riforme a lungo termine che diano la possibilità di rendere più elastico il mercato del lavoro agevolando la transizione studio-lavoro, dall’altro riforme a breve termine atte ad inserire gli studenti nel lavoro e a ridurne i costi. Per quanto riguarda le riforme a lungo termine, è necessario guardare alle situazioni degli altri paesi europei, in cui i centri per l’impiego pubblico sono affiancati da agenzie di collocamento private (basti pensare al “Job Centre Plus” nel Regno Unito, che fornisce risorse per consentire ai disoccupati di trovare lavoro), oltre a modernizzare completamente il settore pubblico rendendolo più efficiente, tramite un filo diretto con le imprese.
Inoltre, sono necessarie semplificazione delle fattispecie contrattuali, che siano ottimali per i giovani che vengono inseriti nel mondo del lavoro, nonché funzionali e convenienti per le imprese che li assumono. Infine, per ridurre il divario con gli altri paesi, è necessaria una riforma scolastica che permetta agli studenti di poter finire il proprio percorso di studi entro i 24 anni e si deve far sì che le basi teoriche acquisite nel corso degli anni siano affiancate ad un lavoro di pratica che consenta ai discenti di sviluppare un approccio più pragmatico.
Per quanto riguarda le azioni a breve termine, è indispensabile una misura di attivazione e sostegno ai giovani che non trovano occupazione, attraverso azioni che potenzino e migliorino progetti come “Garanzia Giovani”, che cerca di garantire ai giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non frequentano un corso scolastico o formativo (NEET, acronimo inglese di “not (engaged) in education, employment or training“, che in italiano indica persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione), un’offerta qualitativamente valida di lavoro, di proseguimento degli studi, apprendistato, tirocinio o servizio civile. Infatti, se ancora un volta volgiamo lo sguardo ai paesi in cui il sistema delle politiche attive è già sviluppato (Germania, Regno Unito e Francia), il Programma “Garanzia Giovani” non si presenta come un prototipo di un nuovo modello organizzativo, ma è una politica complementare finalizzata al sostegno di categorie particolarmente svantaggiate.
È giusto guardare al passato per non perdere l’identità di ciò che siamo e i punti di forza che hanno da sempre caratterizzato la nostra società ed economia, cercando nel presente di attuare delle riforme legislative ed economiche per arginare questo momento di crisi, ed essere competitivi rispetto agli altri paesi emergenti. Pertanto, per risolvere le difficoltà di questo presente, è necessario che giovani e Stato si facciano promotori di un cambiamento positivo animati dalla fiducia nelle risorse economiche ed umane del nostro Paese. Ripartiamo dall’Italia, ripartiamo dai giovani.