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Dispersione scolastica e “fuga di cervelli”: emergenza al pari di quella sanitaria

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I numeri non sono sempre in grado di descrivere appieno una particolare situazione, ma aiutano ad addentrarci nelle questioni, offrendoci una prima istantanea, un punto di partenza comunque necessario. Nel 2020, ben 543.000 studenti hanno interrotto il loro percorso formativo, non riuscendo a raggiungere un titolo superiore a quello della scuola secondaria di primo grado, la vecchia scuola media per intenderci. Un dato reso ancora più preoccupante dagli oltre 68.000 giovani che, in possesso di un titolo superiore o universitario, hanno optato per la via estera, impoverendo ulteriormente il nostro Paese di competenze preziose, umane e professionali.

Dispersione scolastica e “fuga di cervelli” configurano, di fatto, una situazione di drammatica emergenza, importante quanto quella sanitaria. La scuola viene trattata, ormai da anni, da Cenerentola, affidata sovente a ministri con scarsa conoscenza della realtà, incapaci di guardare in faccia le criticità mettendoci mano una volta per tutte. La scuola deve costare poco, chiedere ancora di meno, e sotituirsi sistematicamente allo Stato nella gestione di questioni sociali. Agli insegnanti viene richiesta una continua formazione in tutti i campi dello scibile umano, dalla psicologia all’informatica, passando attraverso una minuziosa acquisizione di una babele burocratica contraddittoria ed estremamente complessa. Per non parlare, infine, delle enormi responsabilità, civili e penali, che ricadono quotidianamente su dirigenti, corpo docente e personale ata.

Gli edifici sono spesso obsoleti, fossili viventi che testimoniano grandezze passate, quando, pur tra mille difficoltà, la scuola veniva affidata a uomini come Gentile, Croce o Berlinguer, rappresentanti di visioni e idee di umanità del tutto differenti. La classe politica, negli ultimi decenni, si è servita piuttosto bene della scuola, ma non ha saputo, altresì, mettersi a servizio della stessa. Non l’ha ascoltata, l’ha ignorata deliberatamente, e dove è intervenuta ha arrecato danni gravissimi.

L’imposizione di una didattica per competenze, inseguendo modelli nordeuropei, ha significato, di fatto, una contrazione dei contenuti, un mancato assorbimento di nozioni, anche basilari. L’attacco frontale a un sapere identitario ha prodotto un’atrofia conoscitiva in ambito storico, geografico, letterario, limitando, nella concreta quotidianità del “fare scuola”, le occasioni in cui esercitare le facoltà del libero esercizio dello spirito critico. Gli alunni, sin dalla primaria, non si abituano al vivo gusto della faticosa, ma soddisfacente, riuscita in compiti complessi. I docenti devono rimuovere ostacoli, difficoltà, inventarsi percorsi alternativi, motivare e incuriosire, finendo per sostituirsi agli alunni, non preparandoli adeguatamente al mondo del lavoro.

Un Paese che non investe sulla scuola, lentamente si condanna al nichilismo, al relativismo, all’ignoranza diffusa, all’irrilevanza sullo scacchiere politico internazionale, semplicemente perde di peso e di credibilità. Non conta più nulla.

La pandemia, inoltre, ci ha strappato intere generazioni di uomini che con il lavoro, lo studio e l’abnegazione per la famiglia, avevano contribuito alla grandezza italiana, rendendo conosciuto e apprezzato lo “Stivale” in tutto il mondo. A chi toccherà prendere in mano la memoria storica del loro operato, tramandando conoscenza, professionalità e valori?

La denatalità diffusa rende ancora più problematico questo passaggio di testimone. Come se ne evince, l’abbandono scolastico non può essere trattato come un problema a sé stante, scollegato dalla vita reale, rappresentata dall’economia, dalla finanza, dal mondo del lavoro e della produzione. Urge, sperando che non sia troppo tardi, una visione d’insieme, in grado di cogliere la ratio che lega indissolubilmente realtà sociali e civili, apparentemente estranee. Non obliamo l’insegnamento degli antichi, secondo cui una vita senza ricerca non varrebbe nemmeno la pena di essere vissuta.

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