Che l’economia iraniana non navighi in buone acque è noto a tutti. Che queste cattive acque non siano unicamente dovute alle nuove sanzioni americane, dovrebbe essere altrettanto noto – considerato il livello di corruzione e mancanza di trasparenza interno al Paese – anche se spesso è nascosto per dare una immagine dell’Iran romantica e propagandistica.
La novità ora, però, è che a certificare lo stato pessimo di salute dell’economia iraniana è la Banca Centrale della Repubblica Islamica (BCI). Per la prima volta dopo quasi un anno, la BCI ha rilasciato giovedì scorso un report sullo stato delle finanze nazionali.
Secondo quanto la BCI rileva, in Iran è esponenzialmente aumentata l’offerta di moneta e sono aumentati anche i prestiti richiesti dal governo alle banche nazionali. In particolare, il volume di liquidità nazionale è salito a 20.262 trilioni di Rial (174 miliardi di dollari), mostrando a dicembre 2019 una crescita del 28 e del 56 per cento rispettivamente al dicembre 2018 e al dicembre 2017.
Il rapporto indica inoltre che da quando Rouhani è presidente (2013), il volume di liquidità nel Paese è cresciuto di quattro vole. In altri termini, da quando Rouhani è presidente, il governo non ha fatto altro che ordinare alle banche nazionali di stampare moneta, aumentando il tasso di inflazione esponenzialmente (oggi è al 40 per cento, secondo i dati del Centro Statistico dell’Iran, anche se per alcuni il dato reale è ben superiore).
Non solo l’inflazione è aumentata, ma anche l’indebitamento nazionale con le banche: secondo la BCI, il debito pubblico verso le banche nazionali è aumentato del 28 per cento rispetto a dicembre 2018, raggiungendo la cifra di 3.880.000 miliardi di Rial (ovvero 30 miliardi di dollari). Anche in questo caso, dall’entrata in carica di Rouhani nel 2013, il debito pubblico verso le banche nazionali è cresciuto di 3,5 volte (in altri termini, il governo ha fatto stampare moneta per poi prenderla in prestito dalle banche pubbliche).
Anche l’indebitamento del settore privato con le banche è cresciuto esponenzialmente, sempre secondo la BCI, raggiungendo negli 12 mesi la cifra di 14.400.000 miliardi di Rial (ovvero 110 miliardi di dollari). A questi dati, va aggiunto il debito estero del regime iraniano, che alla fine del 2019 ammontava a 9 miliardi di dollari, di cui 1,5 da pagare a breve termine.
Inspiegabilmente il report della BCI inserisce – per la prima volta – il gas naturale condensato (NGC) nella categoria dell’export “non petrolifero”. Grazie a questo escamotage viene rilevato che l’export “non oil” dell’Iran da marzo a dicembre 2019 ammonterebbe a 31,9 miliardi di dollari. Infine, la BCI certifica che negli ultimi nove mesi del 2018 lo Stato è riuscito ad incamerare solamente il 61 per cento delle entrate attese e preventivate nel bilancio del 2018. Quindi, considerando il deterioramento ulteriore della situazione economica, il deficit previsto nel 2019 potrà solo essere superiore.
Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, le esportazioni iraniane (greggio, prodotti petroliferi e prodotti e servizi non petroliferi), scenderanno a 55,5 miliardi di dollari, mentre l’import aumenterà di 3 miliardi di dollari, portando il saldo della bilancia commerciale iraniana per la prima volta in negativo. Se questi saranno i dati, l’export segnerà un calo del 50 per cento rispetto al 2017.
Per l’FMI, infine, anche quest’anno il bilancio statale avrà un buco di almeno 63 miliardi di dollari. Dato che, unito al calo delle esportazioni, aumenterà sicuramente il deficit, costringendo il governo ad aumentare la richiesta di prestiti verso le banche nazionali – in primis quella centrale – stampando probabilmente ancora moneta e attingendo anche alle riserve di valuta estera in suo possesso.
Dati e previsioni economiche che sembrano mostrare il successo della strategia di “massima pressione” adottata dall’amministrazione Trump verso la Repubblica Islamica: secondo un report del 13 gennaio dell’Institute of International Finance (IIF), la strategia trumpiana ha quasi cancellato l’export di greggio iraniano. Le riserve estere di Teheran potrebbero scendere a 73 miliardi di dollari entro marzo 2020 (una perdita di quasi 40 miliardi di dollari negli ultimi due anni). Seguendo questo trend, senza un alleggerimento delle sanzioni americane, le riserve estere iraniane scenderanno a 20 miliardi di dollari nel 2024 (mentre con un nuovo accordo tra Iran e Usa, l’economia iraniana potrebbe tornare a crescere del 6 per cento annuo e riportare le riserve nazionali ad un livello pre-sanzioni). In altre parole, la palla è nelle mani dei leader della Repubblica Islamica: la scelta è tra continuare ad essere un regime islamista rivoluzionario che finirà col portare il suo popolo alla fame, e rispettare finalmente lo stato di diritto, diventare un attore internazionale “normale” e responsabile, permettendo finalmente al popolo iraniano di prosperare come meriterebbe.