Media e “sinologi” occidentali succubi della narrazione del regime di Pechino
Xi Jinping vestito come Mao Tse-Tung declama dal palco, la massa ordinata risponde come un sol uomo. La più longeva organizzazione totalitaria della storia celebra se stessa, esaltando i suoi successi, occultando i suoi crimini immensi. La dittatura al suo apogeo, mentre il mondo osserva inebetito. È la fotografia dei cent’anni di Partito Comunista Cinese (PCC) scattata sulla Piazza Tiananmen il primo giorno del mese di luglio del 2021, anno secondo della pandemia di Wuhan. Ma né al coronavirus, né alla morte annunciata di Hong Kong, né allo Xinjiang, né al Tibet, né alla repressione dell’89 in quello stesso scenario, né ai massacri che hanno costellato la storia del Partito fin dalla sua fondazione, né ai laogai, né al soffocamento della società civile, a nulla di tutto questo si è fatto cenno nel giorno del trionfo, coreografato nei minimi dettagli come da tradizione sotto gli occhi attenti e, in genere, benevolenti dei corrispondenti e dei commentatori della stampa internazionale. La volontà di potenza del Partito e il ruolo del suo leader destinato a eternizzarlo sono stati gli unici argomenti di una festa dai contorni macabri e inquietanti, più simile alle adunate di Norimberga che a un evento politico della modernità.
Come in passato, anche nell’attuale momento storico la Cina rappresenta l’esempio paradigmatico di regime dittatoriale: la combinazione di ferreo controllo politico, capillare penetrazione sociale, pronunciato indirizzo economico e capacità tecnologiche avanzate ne fa un caso di scuola di autoritarismo da esportazione. Eppure farete fatica a trovare la parola dittatura nelle decine di analisi che in questi giorni si sono succedute sul centenario, come se fosse un termine che, nel caso cinese, per ragioni imperscrutabili si preferisce non utilizzare. Da qui un fiorire di eufemismi, circonlocuzioni, perifrasi da parte del folto esercito di esperti e sinologi il cui principale obiettivo sembra essere quello di indorare la pillola, laddove il D-word viene invece speso con evidente generosità semantica nel caso di regimi nemmeno lontanamente paragonabili in fatto di pratiche censorie e repressive.
In Italia – Paese in cui la qualifica di sinologo non si nega a nessuno, basta che abbia scritto uno o due articoli facendo riferimento alla mitica “complessità cinese” – questa situazione è particolarmente evidente, non solo per la nota tendenza di numerosi esponenti politici a guardare alla Cina come modello di riferimento, ma soprattutto perché i tempi e i modi della narrazione vengono dettati dal gruppo di giornalisti che fa perno sulla redazione esteri de Il Manifesto, quotidiano comunista co-fondato dalla maoista Rossana Rossanda. La tendenza alla relativizzazione della natura del regime, che spesso presenta i caratteri di un vero e proprio esercizio di auto-censura, si manifesta anche nella descrizione di una Repubblica Popolare soggiogata dalla personalità del suo attuale presidente nonché segretario generale del partito unico, Xi Jinping.
Una delle leggende più peculiari degli ultimi anni è quella secondo cui Xi avrebbe impresso una “svolta autoritaria” al sistema politico cinese, come se la fase attuale non rientrasse, come tutte quelle che l’hanno preceduta, nella stessa tradizione totalitaria che domina il Paese fin dal 1949. In realtà non c’è alcuna soluzione di continuità da Mao a Xi Jinping, solo diversi gradi di repressione e di sviluppo economico a seconda delle priorità imposte dal Partito e dai suoi leaders. La differenza principale risiede nella potenza di fuoco senza precedenti su cui oggi la dirigenza può contare nell’affermazione della propria assertività sia sul piano interno (sotto controllo a meno di imprevedibili scossoni) che su quello internazionale. Una consapevolezza emersa chiaramente nei due passaggi più commentati e più acclamati del discorso del primo luglio di Xi/Mao. Da un lato una difesa offensiva della sovranità del Paese che suona a minaccia: “Non abbiamo mai maltrattato, oppresso o soggiogato la gente di nessun altro Paese, e non lo faremo mai”, ha dichiarato Xi prima di avvertire solennemente che la Cina non permetterà “a nessuna forza straniera di intimidirci, opprimerci o soggiogarci. Chiunque tenti di farlo si spezzerà la testa e gronderà sangue sbattendo contro un grande muro d’acciaio costruito con la carne e il sangue di oltre 1,4 miliardi di cinesi”. Roba che se l’avesse pronunciata un qualunque leader della destra europea o anche solo Vladimir Putin saremmo sommersi dalle interrogazioni parlamentari e dai cortei di piazza contro l’allarme fascismo. Solo che non è fascismo, è comunismo, ed evidentemente scalda meno i cuori.
Poi c’è la questione Taiwan, la cui rilevanza nella cosmovisione del PCC è spesso sottovalutata in Occidente. Xi Jinping ha parlato di “riunificazione completa” dell’isola alla madrepatria, non più di “riunificazione pacifica”. Le parole sono importanti in una simbologia da sempre carica di significati occulti come quella cinese e, in questo caso, sembrano annunciare l’inevitabilità di un conflitto, vedremo se caldo o freddo, intorno alla “provincia ribelle”. Dopo aver definito la riunificazione “un compito ineludibile per il Partito e un’aspirazione comune di tutto il popolo cinese”, Xi ha concluso avvisando che “nessuno dovrebbe sottovalutare la nostra determinazione nel difendere la sovranità nazionale e l’integrità territoriale”. Che, tradotto per i non cinesi, significa che la Cina non ha nessuna intenzione di rispettare la sovranità altrui. In concomitanza con la festa del Partito, il settimanale Naval and Merchant Ships ha pensato bene di pubblicare una simulazione di un attacco all’isola in tre fasi, che si materializzerebbe con l’invasione terrestre delle truppe dell’Esercito Popolare di Liberazione. Ma si rischia di non comprendere fino in fondo il caso Taiwan se non lo si mette in relazione con un altro passaggio del discorso del presidente/segretario/dittatore, quello sul “ringiovanimento della nazione”, un obiettivo la cui realizzazione la dirigenza comunista ha fissato per il 2049, anno del centenario della fondazione della Repubblica Popolare. La vaghezza del concetto, tipica della lingua di legno del Politburo, risulta più comprensibile se rapportata a un progetto tangibile come l’annessione di Taiwan: tanto è vero che è stato lo stesso Xi, in più occasioni a partire dal 2012, a legare le due affermazioni fino a proclamare nel diciannovesimo Congresso del Partito (2017) che la riunificazione è un “passo necessario” verso il “definitivo ringiovanimento della nazione”.
Un elemento essenziale all’autolegittimazione della dittatura, onnipresente nella propaganda ufficiale, è quello della necessità storica del ruolo del Partito Comunista nello sviluppo della nazione cinese. Insomma, leggere Hegel e Marx a Pechino: “Il successo della Cina dipende dalla leadership del Partito. È questo il fattore chiave nel socialismo con caratteristiche cinesi. È il sangue di questo Paese, dal quale dipende il benessere di tutto il popolo. Per questo bisogna mantenere e consolidare la sua posizione”. Su una cosa Xi ha ragione, il Partito è il sangue del Paese. Ricordiamo brevemente il costo in termini di vite umane dell’esperimento comunista cinese (senza contare rieducati, internati, esiliati, sequestrati, scomparsi, impoveriti, espropriati, umiliati e offesi). Frank Dikötter, nel suo The Tragedy of Liberation, cifra in cinque milioni le vittime dei comunisti nel periodo iniziale della loro ascesa al potere (1945-1957): due milioni di proprietari terrieri, i restanti tre milioni ripartiti tra “nemici del Partito”, impresari, funzionari dei governi anteriori e intellettuali. Ma il peggio doveva ancora cominciare. Mezzo milione di morti durante la campagna contro gli “elementi di destra” (1957-1959); quarantacinque milioni di morti per fame, torture ed esecuzioni sommarie durante il Grande Balzo in Avanti (1958-1962); tra il milione e mezzo e i sette milioni – qui i numeri variano parecchio – i cadaveri prodotti dalla Rivoluzione Culturale (1966-1976), oltre alla conseguente devastazione sociale; almeno diecimila fucilazioni ordinate da Deng Xiaoping nel corso della campagna contro la “criminalità organizzata” (1983, in realtà diretta contro l’opposizione interna); il massacro di Piazza Tiananmen, tra tremilacinquecento e diecimila vittime (1989); la tragedia del Tibet, un milione duecentomila vittime stimate (1950-1975), e quella dello Xinjiang attualmente in divenire. Queste le cifre emerse, le sommerse non si conosceranno mai.
Ne risulta che il Partito Comunista Cinese, quello dei cent’anni di gloria, è senza dubbio l’organizzazione politica più letale della storia contemporanea. È stato un vero capolavoro della censura e della propaganda l’aver trasformato una simile arma di distruzione di massa nel Partito indispensabile alla sopravvivenza e allo sviluppo della Cina. Un postulato che, incredibilmente, ha finito per essere accettato acriticamente da buona parte degli osservatori occidentali di cose cinesi. Come è stato possibile un capovolgimento della realtà così clamoroso, come è potuta passare una truffa intellettuale e morale di queste proporzioni?
La teoria dell’indispensabilità del PCC poggia su due pilastri ideologici strettamente collegati tra loro: la rimozione del passato e il controllo (censura, sorveglianza, indirizzo) dell’opinione pubblica. Dei crimini del Partito, prima e dopo essersi fatto regime, i ragazzi che sventolavano entusiasti le bandiere cinesi e acclamavano Xi Jinping il primo luglio 2021 non sanno nulla. Della repressione di migliaia di giovani su quella stessa piazza, ordinata in nome della sopravvivenza del sistema che oggi celebrano, non hanno mai sentito parlare. Quel poco che conoscono della loro storia nazionale è filtrato dalla dottrina ufficiale che derubrica a disastri naturali o incidenti di percorso gli eventi luttuosi che il comunismo ha inflitto e continua a infliggere ai cinesi, tutti i cinesi, han, tibetani o uiguri che siano. È la sublimazione del principio orwelliano del controllo del passato per determinare il futuro (e il presente). Il PCC la chiama lotta al “nichilismo storico” ma in realtà è una battaglia contro la verità storica che, se fosse rivelata, provocherebbe la perdita di legittimità del Partito-Stato e la fine del suo monopolio politico e ideologico. Come nota Andreas Fulda sullo Spectator, “esporre il suo passato significherebbe evidenziare non solo i suoi infiniti crimini contro l’umanità, ma anche i suoi continui abusi nei confronti della popolazione”. Da qui la necessità di costruire un eterno presente, avulso dalla storia recente, nel quale il Partito diventa, attraverso il controllo dell’educazione, dei media e della propaganda l’unica realtà di riferimento. Il sogno totalitario fattosi realtà, perfettamente rappresentato dalla massa ordinata di giovani esultanti del primo luglio. Curioso che l’eterno presente e la rimozione del passato siano atteggiamenti comuni a un gran numero di sinologi occidentali, gli stessi che cadono spesso e volentieri in quella che potremmo chiamare la trappola del consenso.
Nessuna dittatura può sopravvivere a lungo senza una base di consenso popolare, quella cinese non fa eccezione. Ma una cosa è riconoscere l’esistenza di un appoggio al regime (a qualsiasi regime) più o meno esteso, altro è dar per buona la tesi ufficiale secondo cui il Partito incarna le aspirazioni della nazione ed è l’unica istituzione legittimata a rappresentarla. La trappola del consenso si basa su una triplice fallacia: che il presunto sostegno popolare viene venduto all’opinione pubblica internazionale dallo stesso Partito-Stato che si guarda bene dall’indire elezioni (in Cina non si fa nemmeno finta di votare a livello nazionale, come succedeva nei paesi del socialismo reale), che censura il web e proibisce qualsiasi tipo di manifestazione pubblica di dissenso; che è un esercizio inutile fare speculazioni sul consenso o provare a misurarlo attraverso sondaggi di opinione (come hanno tentato alcune organizzazioni internazionali, con tutte le limitazioni del caso) in un contesto di repressione politica, censura mediatica e auto-censura individuale; che, anche nel caso di appoggio genuino e convinto al regime, si tratterebbe di un risultato viziato dai meccanismi di indottrinamento, propaganda e controllo sociale di cui la dittatura si serve per mantenere la stabilità interna. Senza contare che nessun livello di consenso, perfino se si potesse considerare reale, sarebbe comunque in grado di cambiare la natura di un regime dispotico né la portata dei suoi crimini passati o presenti.
Lungi dall’essere elemento a favore della legittimità del sistema, la trappola del consenso si rivela allora una prova a contrario della sua sostanziale arbitrarietà. Se i cinesi godono di una relativa autonomia decisionale in ambito strettamente personale, lavorativo ed economico, non solo sono a loro negati i più elementari diritti politici e le libertà civili essenziali (associazione, espressione, stampa, sindacati) ma, nell’ottica del Partito, diventano strumenti – inconsapevoli o meno – di un’operazione volta a chiudere ogni spazio al pluralismo (Hong Kong ne è solo l’ultimo eclatante esempio): in un simile scenario, lo sbandierato consenso non è che la dimostrazione di un grado di conformismo altrimenti inimmaginabile in una società diversificata e globalizzata come l’attuale.
Un’ultima osservazione, in conclusione, sul tema del Partito indispensabile. Se c’è un terreno in cui l’apertura di credito al PCC è quasi unanime, anche in Occidente, è quello dello sviluppo economico cinese e del miglioramento delle condizioni di vita della popolazione negli ultimi quarant’anni. La crescita e il ruolo della Cina come potenza globale sono sotto gli occhi di tutti e sarebbe sciocco discuterle. Ma è sulle ragioni oggettive di questo cambiamento che troviamo di nuovo gli stessi meccanismi di rimozione e di selezione già analizzati in precedenza. “Abbiamo ottenuto una soluzione storica al problema della povertà assoluta e adesso marciamo sicuri verso l’obiettivo di trasformare la Cina in un Paese socialista moderno in tutti i sensi”, proclama Xi Jinping. Che il Partito presenti i successi in campo economico come un trionfo del socialismo ci può stare, che il resto del mondo debba necessariamente aderire a questa versione dei fatti dovrebbe essere un po’ meno scontato. Per cominciare, la povertà dalla quale l’azione del Partito, da Deng in poi, avrebbe sollevato i cinesi è quella a cui l’azione dello stesso Partito li aveva condannati prima di Deng (collettivizzazione, Grande Balzo in Avanti, carestie, Rivoluzione Culturale). Fu proprio l’abbandono del collettivismo, della pianificazione forzata, in una parola del comunismo, a creare le condizioni per una crescita economica che oggi il Partito si attribuisce e che invece è stata il risultato della ritirata strategica dell’ideologia dall’ambito produttivo.
Non è grazie al socialismo che la Cina è uscita dalla povertà ma piuttosto grazie alla rinuncia al socialismo e all’introduzione di elementi sempre più spinti di capitalismo e di iniziativa privata. In poche parole, la svolta economica cinese – l’unica vera storia di successo che il PCC può legittimamente vantare – ha rappresentato la più perentoria smentita della ragion d’essere del Partito-Stato e del marxismo-leninismo sotto il quale, come un involucro esterno, continua a ripararsi. Sono stati i cinesi, e non i mandarini di Zhongnanhai, i protagonisti del cambiamento, a partire dal momento in cui, nella più saggia decisione della sua storia, la cupola al potere ha deciso di lasciarli fare, di eliminare le restrizioni che impedivano l’impresa individuale, di permettere loro di “arricchirsi”. Insomma, da quando il Partito ha deciso di farsi da parte. Un precedente che non si vede perché non possa essere esteso all’ambito politico. Ovviamente Xi Jinping non può dirlo e i cinesi possono solo pensarlo. Noi però da qui possiamo ancora scegliere tra la propaganda e la realtà della dittatura e, se decidiamo di optare per la prima o di astenerci, ne diventiamo in certa misura complici.