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Divide et impera: l’Unione europea esige l’Irlanda del Nord non per mantenere la pace, ma per bloccare Brexit

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Un insperato spiraglio sembra essersi aperto dai colloqui su Brexit che si sono svolti lontano dal clamore mediatico, mentre le dichiarazioni pubbliche dai due fronti sembravano far pensare al peggio. Incontro definito “costruttivo” quello di ieri tra il ministro britannico Steve Barclay ed il capo negoziatore dell’Ue Michel Barnier. “Indicazioni positive”, ci sono almeno i presupposti per intensificare i negoziati, anche se molto lavoro resta da fare. E anche il presidente del Consiglio europeo Tusk, di solito sprezzante, ha parlato di “segnali promettenti”. Quindi via alla stretta finale, ai colloqui tecnici. Si apre un weekend di intenso lavoro per i negoziatori europei e britannici, impegnati a trovare un accordo in extremis, in vista del Consiglio europeo di giovedì e venerdì prossimi. A meno che entrambe le parti non stiano solo cercando di mostrare il massimo impegno fino alla fine per evitare poi l’accusa di non aver fatto abbastanza.

Sullo sfondo resta infatti il rischio dello scontro finale, con due epiloghi plausibili: la terza richiesta di proroga o la conclusione del processo di separazione senza aver raggiunto un accordo. Brexit potrebbe quindi essere prossima ai titoli di coda, ma come insegnano le puntate precedenti della saga il condizionale è più che mai d’obbligo. E se siamo arrivati a questo punto è per il meccanismo del backstop che l’Ue sta cercando di imporre ai “ribelli” britannici. A irritare Londra, nelle ultime ore, la missione di David Sassoli in qualità di presidente del Parlamento europeo, che ha incontrato lo Speaker dei Comuni, John Bercow, uno degli oppositori più esposti del primo ministro conservatore, e che assicura di voler collaborare per trovare una soluzione allo stallo in corso, in cui i tecnicismi si trasformano in beghe diplomatiche.

I rapporti tra le due parti dopo la separazione, il riconoscimento dei diritti dei cittadini europei su suolo britannico e viceversa, i temi legati alla cooperazione tra forze di intelligence e militari, le politiche tariffarie da applicare: c’è questo e molto altro di importante sul tavolo, ma soprattutto c’è la questione irlandese. Non è dunque un caso che Johnson sia alle prese soprattutto con il collega Leo Varadkar, capo del governo di Dublino. Si sono già sentiti al telefono a più riprese e alcune “indicazioni incoraggianti” sono emerse dall’incontro di mercoledì sera tra i due. Dalla posizione di Varadkar di fronte alla nuova proposta di accordo presentata dall’esecutivo britannico potrebbe dipendere l’esito dell’intero processo in atto. C’è un confine da sistemare, quello tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda, spazio che ha trovato stabilità solo nel 1998 con il Good Friday Agreement per porre fine alle lunghe violenze nell’Ulster tra cattolici e protestanti.

Un compromesso fatto di cooperazione, una maggiore devoluzione e di demilitarizzazione: l’appartenenza della regione al mercato unico ha fatto il resto, favorendo la libera circolazione di beni e persone. Da qui la matassa post referendaria: come regolare il flusso dopo Brexit? Prima l’ipotesi backstop prevista dall’accordo raggiunto con Theresa May: uno status quo che ha acceso la battaglia politica e legale a Westminster e ha fatto perdere il sostegno degli Unionisti ai Comuni, contrari all’idea che l’Irlanda del Nord rimanga nell’unione doganale, separandola dal resto del regno. Poi il piano di Johnson, apparentemente rispedito al mittente dall’Ue, che prevede controlli sulle merci in entrata e in uscita, ma non necessariamente sulla linea di confine, con un allineamento alle regolamentazioni comunitarie sui beni di almeno quattro anni e la possibilità concessa alla Northern Irish Assembly di prorogare il periodo di altri quattro.

Non è abbastanza, hanno fatto sapere da Bruxelles. Che ha rilanciato: l’Irlanda del Nord deve rimanere nell’unione doganale, altrimenti non se ne fa niente. Divide et impera, secondo l’adagio romano: Londra, Cardiff ed Edimburgo infatti sarebbero fuori dall’influenza dell’Ue, mentre Belfast resterebbe de facto nella sua orbita. Ufficialmente l’obiettivo ultimo del meccanismo di backstop era di mantenere la situazione di pace, ma ormai appare come un chiaro tentativo di stoppare Brexit, prestando così il fianco agli euroscettici che lamentano la continua quota di sovranità che le istituzioni europee pretendono dagli stati membri. Nell’ultima settimana alle richieste sul Nord Irlanda si sono aggiunte le condizioni perché un’eventuale proroga a Brexit venga concessa: nuove elezioni o addirittura un secondo referendum, così tanto reclamato dai più attivi tra i Remainers nella speranza che l’esito possa venire ribaltato il risultato del 2016 non è mai stato digerito, né sul continente né sull’isola come dimostrano le parole dell’ex primo ministro Tony Blair torchiato sulla BBC da Andrew Neil.

La posta in palio si fa sempre più alta man mano che si avvicina il 31 ottobre, la deadline che Johnson ha tutte le intenzioni di voler rispettare, e gli animi diventano inevitabilmente sempre più tesi. È un muro contro muro che, come insegnano i precedenti, non ha fruttato nulla di buono. I continui “no” della commissione guidata da Jean Claude Juncker alle richieste di David Cameron di ridiscutere le regole sull’immigrazione tra il 2014 e il 2015 furono solo l’antipasto di quanto accaduto un anno più tardi.

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