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Divisioni e deficit di liberalismo: gli equivoci della destra italiana

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Nel suo bel libro “Per una nuova destra”, già recensito dal sottoscritto e da altri autori su questo giornale, Daniele Capezzone ha condotto un’analisi impietosa del centrodestra italiano. E questo ben prima della sconfitta (che a me pare davvero tale) subita nel corso dell’elezione per il Quirinale. D’altro canto la rielezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica per un secondo mandato ha suscitato, com’era ovvio, reazioni assai diverse. Falso dire che è giunta inaspettata, giacché da parecchi giorni s’era capito che molti parlamentari puntavano sul bis per evitare uno stallo che stava diventando pericoloso. E non è certo un caso che il secondo mandato di Mattarella sia stato accolto con un certo sollievo sul piano internazionale (perché non ammetterlo?), dove molti Paesi alleati temevano il ritorno della solita Italia instabile e preda delle tensioni sui mercati.

Ciò detto, tuttavia, è altrettanto chiaro che il nostro sistema politico è in crisi. Ciò che più colpisce nella situazione italiana è l’assoluta inadeguatezza della quasi totalità della classe politica, che si traduce – come si è puntualmente visto – nell’incapacità dei leader di partito (o presunti tali) di pensare strategie vincenti e di risolvere i problemi che giacciono sul tavolo. Se ci si pensa bene, le due coalizioni che si sono, per dir così, “scontrate” in Parlamento, costituiscono in realtà delle scatole vuote. Oppure, per ripetere una metafora usata da molti (incluso il sottoscritto), sono due Armate Brancaleone guidate da condottieri improbabili e dotati di fiuto politico assai scarso.

Cominciamo con la coalizione che a mio avviso ha perso (anche se non tutti concordano), e pure male, vale a dire il cosiddetto centrodestra. Da tempo è ormai chiaro che nella realtà concreta – quella di tutti i giorni – non esiste alcunché di simile. Abbiamo soltanto tre partiti che vanno ognuno per proprio conto e che, addirittura, litigano più tra loro che con gli avversari. In questo caso Matteo Salvini, che pure in altre occasioni ha ottenuto risultati brillanti, ha dimostrato tutti i suoi limiti di stratega. Qualcuno ha persino dovuto rammentargli che l’elezione del presidente non è X Factor o il Festival di Sanremo, il che non gli ha impedito di continuare nella sua strategia suicida sino alla fine. A questo punto, però, è improbabile che qualcuno abbia il coraggio di proporlo come premier in futuro.

Anche perché ora il leader della Lega si propone come federatore all’interno di un contenitore ispirato al Partito Repubblicano Usa. Sì, ma quale? I repubblicani americani sono in grandi ambasce. La maggioranza del partito, a quanto pare, è tuttora vicina a Donald Trump, mentre il vecchio establishment versa in serie difficoltà. E’ ovvio, in ogni caso, che Salvini dovrebbe chiarire di quale Partito Repubblicano sta parlando, altrimenti la sua idea lascia il tempo che trova.

Altro grande mistero è Giorgia Meloni. La giovane leader di FdI probabilmente s’illude che basti restare ben fermi e da soli all’opposizione per guadagnare voti, il che la dice lunga sulla sua visione strategica. Poi si è addirittura proposta come persona in grado non solo di riunificare, ma anche di “rifondare” il centrodestra. Propositi ambiziosi ma, sentendola parlare, a molti sorge il dubbio che siano solo battute destinate – anch’esse – a lasciare il tempo che trovano. L’unico che dimostra ancora una volta di possedere una caratura superiore è il più anziano, pur se afflitto da problemi di salute più seri di quanto egli stesso ammetta. Ma il problema di Berlusconi, si sa, è non aver preparato la sua successione alla testa del partito, essendo lui stesso preda di un egocentrismo assoluto.

Capezzone, nel volume dianzi citato, ha individuato nel “deficit di liberalismo” uno dei problemi principali della destra italiana, e ha ragione. Quando sento parlare e ragionare Salvini e Meloni, non ho affatto l’impressione di trovarmi di fronte a dei liberali, bensì a figure che con il liberalismo classico hanno ben poco da spartire. Sono del resto le loro storie politiche personali a confermare che è proprio così: basta che aprano la bocca per capire che, di liberale, i due hanno ben poco.

La grande fortuna della destra italiana è che dall’altra parte, vale a dire nel cosiddetto centrosinistra, non è che le cose vadano molto meglio, anche se ha incassato la vittoria con il secondo mandato di un presidente che proviene dalle sue fila. Tuttavia è una vittoria regalata dagli avversari più che pianificata. Pure in questo caso, molti vorrebbero capire cosa c’entra il Pd con i grillini, e perché Enrico Letta consideri Conte (o Di Maio?) come naturale alleato. Si può anche rispondere: “in mancanza di meglio”, ma questa non è politica. Vedasi dunque quanto detto sopra a proposito degli altri. Anche il centrosinistra, nella realtà concreta, non esiste. Ci sono solo persone che stanno insieme per convenienza.

E’ probabile che Sergio Mattarella e Mario Draghi, che hanno già dato prova di intendersi molto bene, riescano a ridurre ulteriormente lo spazio dei partiti (come molti temono). Così rinfocolando le paure circa un possibile dominio della tecnocrazia. Ma qual è l’alternativa? Allo stato attuale le due coalizioni, peraltro fasulle, non avranno certo la forza d’imporsi, anche tenendo conto di uno scenario internazionale che sta ponendo crescenti difficoltà.

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