Nulla sfugge all’occhio indagatore dell’onnipotente Partito comunista cinese. Non si salvano neppure i tanti tycoon locali che hanno accumulato enormi patrimoni personali da quando Deng Xiaoping, dopo la morte di Mao, invitò tutti i suoi concittadini a cercare la ricchezza senza più tener conto dei vecchi pregiudizi ideologici marxisti.
Dal punto di vista del partito gli imprenditori miliardari hanno un difetto imperdonabile. Credono, in altri termini, che il denaro accumulato a palate – spesso in tempi molto brevi – li metta al riparo dai fulmini della nomenklatura comunista. E pensano, inoltre, che l’esperienza nel business li autorizzi a dare consigli a coloro che comandano veramente a Pechino.
Se in precedenza qualche margine di autonomia era pur tollerato, l’avvento di Xi Jinping e del suo gruppo dirigente ha rimesso, per così dire, “le cose a posto”.
Anche se molti in Occidente continuano a sostenere che la Repubblica Popolare è una nazione comunista solo nel nome, la realtà è ben diversa. Xi ha ridato al Partito un potere e un’autorità che nessuno, senza eccezioni di sorta, può mettere in discussione.
I miliardari, anche se hanno necessariamente in tasca la tessera del Partito, non devono illudersi di perseguire strategie economiche o politiche autonome. Il successo conseguito negli affari non garantisce loro nessuna posizione di privilegio e, se vengono richiamati all’ordine da Xi e dai suoi, devono chinare la testa senza fare tante storie.
Ne sa qualcosa il celebre Jack Ma, fondatore del gigante cinese dell’e-commerce Alibaba. Dopo aver criticato pubblicamente l’arretratezza del sistema bancario cinese, la sua azienda è stata pesantemente sanzionata dal Partito-Stato.
Lo stesso Jack Ma è in pratica sparito dai radar, e da parecchio tempo non si hanno più sue notizie. Ha probabilmente capito che gli conviene star zitto per evitare guai peggiori. I soldi, in Cina, non danno garanzie contro un eventuale soggiorno nei famosi “campi” in cui vengono “rieducati” i dissidenti di ogni tipo nonché i membri delle minoranze etniche sgradite.
Ora pare tocchi anche a Zhang Yiming, il 38enne fondatore della piattaforma d’intrattenimento TikTok, che ha un’enorme numero di utenti anche in Occidente (Italia inclusa). Accreditato di un patrimonio personale che ammonta a 36 miliardi di dollari, il giovane imprenditore ha improvvisamente scoperto “di non essere un tipo social” (sic). Intende dunque dedicarsi ad attività “solitarie” tipo navigare online, leggere, fantasticare e ascoltare musica.
Naturalmente gli analisti internazionali hanno subito mangiato la foglia. Zhang teme di fare la stessa fine di Jack Ma, e cerca quindi di sottrarsi a sanzioni e censura con una rapida azione preventiva.
In realtà TikTok, agli occhi del Partito comunista, è ancora più pericoloso di Alibaba. Si tratta infatti di una piattaforma frequentata da giovani e giovanissimi (anche se non solo). È quindi un terreno di coltura ideale per la crescita di eventuali influencer. Si conosce bene il peso che quest’ultimi hanno acquisito in Occidente, riuscendo spesso a condizionare la vita politica e sociale di una nazione. Si pensi soltanto, per esempio, al “caso Fedez” in Italia.
La Repubblica Popolare, tuttavia, non può permettersi di avere simili figure nel proprio territorio. Se accadesse, entrerebbe in crisi il dominio assoluto dell’opinione pubblica che il Partito detiene e non ha alcuna intenzione di perdere.
Nel frattempo l’antitrust della Repubblica Popolare ha minacciato di gravi sanzioni altri colossi tecnologici locali. Quindi va bene far soldi, ma mente e anima del “popolo” devono restare totalmente nelle mani del Partito. Alla faccia di tutti coloro che non giudicano più comunista la Cina attuale.