“La Grecia ha dimostrato nuovamente la sua ostilità verso l’Islam e la Turchia, con la scusa di reagire all’apertura della Moschea di Santa Sofia alla preghiera”.
Sono queste le parole con cui il ministro degli esteri turco, Hami Aksoy, ha commentato le critiche di Atene verso alla decisione di Ankara di permettere la riconversione della Basilica di Santa Sofia a Moschea. Teniamo a mente queste parole, su cui ritorneremo più avanti.
Venerdì scorso, il giorno più santo per l’islam, come noto si è tenuta alla Hagia Sophia la prima preghiera dopo la riconversione a Moschea. Una preghiera durante la quale l’imam Ali Erbas, ministro degli affari religiosi turco, ha impugnato una spada ottomana nella mano sinistra, “simbolo della conquista dei cuori”.
Ora, ci si può soffermare quanto si vuole sui dettagli delle simbologie. Si può – probabilmente si deve anche – notare la differenza tra impugnare la spada nella mano destra o in quella sinistra, sottolineare che la jihad nell’islam è primariamente una questione di sforzo spirituale interno e rimarcare come molti musulmani ricordino costantemente che nell’islam non deve esserci alcuna costrizione di fede (Corano 2:256).
Ma tutto questo non è che una interpretazione dell’islam dei settori più moderati del mondo musulmano, che a volte è servita come mera propaganda verso l’Occidente e che, ad ogni modo, è stata ampiamente rigettata dalle frange politiche radicali.
Così, se continuiamo nella lettura del passo “non c’è costrizione nella religione”, leggiamo anche che “la retta via ben si distingue dall’errore. Chi dunque rifiuta l’idolo e crede in Allah, si aggrappa all’impugnatura più salda senza rischio di cedimenti. Allah è audiente, sapiente” (Corano 2:256). E ancora: nella lettera del profeta Maometto al governatore romano Eraclio si legge: “Vi invito ad accettare l’Islam. Se accettate l’Islam, troverete la sicurezza. Se accettate l’Islam, Dio vi darà una doppia ricompensa. Tuttavia, se lo deprecate, su di voi sarà il peccato”.
Dunque, spada o non spada, per chi fonda la sua politica sull’islam, è la religione il metro di giudizio per stabilire chi è nel giusto e chi nell’errore. E chi è nell’errore, ha solo una opportunità: sottomettersi, sperando di essere inclusi in una delle minoranze considerate “protette” (dhimmi), dietro il pagamento di una tassa speciale (i protetti sono i cristiani, gli ebrei e gli zoroastri).
Ora ritorniamo all’inizio di questo articolo, la replica del ministro turco alle proteste greche. Applichiamo quanto abbiamo appena descritto ai rapporti internazionali. Ciò che ne ricaviamo è un messaggio molto chiaro: chi si sottomette alla decisione turca sulla Basilica di Santa Sofia è considerato un amico dell’islam e di Ankara. Chi al contrario rigetta la decisione, è visto come un nemico.
E siccome la decisione turca su Santa Sofia ha un carattere religioso, ma è fondata su motivazioni molto politiche – il prestigio di Erdogan nel mondo islamico, la propaganda nazionalista per gestire il consenso durante una grave crisi economica interna – le proteste che arrivano da Paesi, come la Grecia, storicamente antagonisti di Ankara, verranno ritenute di primaria importanza. Contro queste, per l’appunto, Ankara ha deciso di innalzare il livello dello scontro, trasformando la questione geopolitica in questione anche religiosa.
Dunque, se le motivazioni di Erdogan sono anche di natura nazionalista, tuttavia ergersi a paladino dell’Islam politico e dichiarare qualcuno nemico dell’Islam, ha implicazioni anche di carattere religioso, porta il confronto sul piano della jihad. Una jihad giustificata come difesa, davanti ad un nemico che “si oppone alla verità”.
Le conseguenze di questa sorta di “fatwa politica” sono imprevedibili. Può implicare un aumento della retorica priva di conseguenze militari, ma anche portare a motivare scontri in realtà dettati da interessi economici e geopolitici (come il gas nel Mediterraneo), ma che ricevendo una giustificazione religiosa, chiamano all’azione contro la Grecia anche tutto il mondo dell’islam politico che oggi si riconosce in Erdogan (la Fratellanza Musulmana). Con conseguenze che vanno dalle proteste di piazza contro Atene in varie parti del mondo, a potenziali attacchi contro le rappresentanze diplomatiche greche nel mondo.
Non è finita qui. Quello che oggi riguarda solo la Grecia, domani potrebbe riguardare Cipro, l’Egitto e la Francia (che proprio in questi giorni hanno svolto una esercitazione militare congiunta nel Mediterraneo), la Germania se rifiutasse ancora di pagare Ankara per bloccare i migranti dai Balcani, la Russia ortodossa e la stessa Italia, nel caso in cui Roma decidesse di non voler più accettare i ricatti di Erdogan a Tripoli e davanti alle coste di Cipro con le navi trivellatrici.
Insomma, molti Paesi, anche europei, sono potenzialmente soggetti ad essere accusati da Ankara di essere “ostili all’Islam”, se per caso decidessero di scontentare Erdogan su qualche dossier.
Abbiamo già un esempio di ciò di cui parliamo, ovvero la Repubblica Islamica dell’Iran. La rivoluzione khomeinista fu salutata positivamente anche da una certa intelligentsia occidentale, pronta a giustificare tutto in nome della lotta allo Shah. Come è andata a finire lo sappiamo tutti. Oltre ad avere un Iran fondamentalista, negazionista, antisemita e anti-occidentale, il regime ha dichiarato fatwe ad hoc contro scrittori musulmani, considerati nemici dell’Islam per le loro opere.
Eppure, a distanza di quaranta e passa anni dalla rivoluzione islamica iraniana, c’è ancora in Occidente chi giustifica Teheran nel nome dell’antiamericanismo.
Con Santa Sofia, si apre una nuova fase nelle relazioni tra Turchia e Occidente. I conflitti geopolitici resteranno gli stessi, ma cambieranno radicalmente le loro giustificazioni. Difficile dire quale sia il modo migliore di reagire a questa offensiva di un Paese così strategico per la Nato. Restare passivi però non può essere considerata una opzione, perché si rischia di incoraggiare Erdogan, non facendo emergere in superficie tutte le debolezze e contraddizioni del suo potere. I governi occidentali dovrebbero ricordare in ogni occasione che la Turchia non ha solo da offrire, ma anche necessità di ottenere qualcosa. Far parte della Nato conferisce prestigio ad Ankara, status, anche rispetto a partner/contendenti come la Russia. Così come la pipeline che porta il gas russo attraverso il territorio turco ha valore perché c’è qualcuno dall’altra parte che lo acquista.
Essere clienti non ci rende solo dipendenti, ma anche pretendenti. Come tutti i clienti, dovremmo anche pretendere di avere un buon prodotto. Prendendoci anche il rischio di minacciare di non acquistare più, andare a vedere fino a che punto il “monopolista” è disposto a spingersi per farci cedere. Non siamo così sicuri che il “mercante Erdogan” sia disposto a rischiare di chiudere il suo “bel negozio” dando seguito alle sue minacce…