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E se dovessimo temere più il ritorno dell’imperialismo che il nazionalismo?

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Fino alla vittoria del Leave nel referendum britannico del 2016 sulla permanenza nell’Ue e all’elezione, a novembre dello stesso anno, di Donald Trump alla Casa Bianca, in pochi dubitavano del fatto che globalizzazione, multilateralismo, multiculturalismo, e un progetto sovranazionale come quello europeo fossero processi ormai consolidati e destinati a dominare i prossimi decenni. E invece, oggi ci stiamo chiedendo se non sia in atto un cambio di paradigma. Il leitmotiv degli ultimi vent’anni, la crisi e il superamento dello stato-nazione, viene messo in discussione. Mai come nel corso degli ultimi due decenni, in effetti, attori e processi economici internazionali e organizzazioni sovranazionali ne avevano eroso i poteri. La Brexit e l’elezione di Trump rappresentano però un brusco risveglio. “Take back control”, invocano decine di milioni di elettori su entrambe le sponde dell’Atlantico: riprendere il controllo di processi politici ed economici i cui centri decisionali da qualche lustro si stanno allontanando dalla cittadinanza sia fisicamente, che negli interessi e nei valori a cui rispondono; interloquire con un ceto politico direttamente accountable, a cui si possa immediatamente chieder conto delle scelte, e che invece viene percepito sempre più sfuggente.

Insomma, l’idea di nazione si sta dimostrando estremamente resiliente, soprattutto nei Paesi, come Regno Unito e Stati Uniti, dove le istituzioni democratiche sono più antiche e solide (americani e britannici sono giustamente gelosi dei loro modelli costituzionali, che ritengono “superiori”), dove storicamente democrazia liberale e stato-nazione sono andati di pari passo, senza nefasti divorzi, e dove eccessi nazionalistici sono sempre stati minoritari. Al ritorno delle nazioni abbiamo dedicato un ampio capitolo in “Brexit. La Sfida” (2017).

Nella Brexit e nell’elezione di Trump c’è chi non sa vedere altro che il mostro del nazionalismo, come fosse l’anticamera di un nuovo fascismo. Bisogna forse prendere in considerazione l’ipotesi che in questi anni si sia andati troppo oltre con il trasferimento di sovranità verso organizzazioni sovranazionali come l’Ue; con la attribuzione di un ruolo sempre crescente a una governance globale che si pretende “tecnica” e “terza”, ma che appare inafferrabile e dall’incerta legittimazione; con la narrazione di un mondo senza più confini, di una società globalizzata, transnazionale, multiculturale. Le leadership nazionali sembrano più preoccupate di rispondere agli altisonanti impegni ideali proclamati nei consessi multilaterali che non alle esigenze pratiche dei loro cittadini.

Sta emergendo, quindi, in diversa misura ma in tutte le opinioni pubbliche occidentali, una forte istanza di riequilibrio sul lato della sovranità, della lealtà e della coesione nazionale.

L’idea che il nazionalismo sia una forma di intolleranza ed estremismo che porta inevitabilmente agli anni ’30 del secolo scorso è a dir poco semplicistica. Al contrario, in Occidente la storia dello stato-nazione si intreccia con quella della libertà politica. L’affermazione dei principi liberali e delle istituzioni democratiche è andata di pari passo, in epoca moderna, con l’ascesa dello stato-nazione. Come ha ricordato il politologo Walter Russell Mead, sul Wall Street Journal, quando il presidente francese Macron ha definito il nazionalismo la negazione e il tradimento del patriottismo, non tutti i popoli europei hanno con il nazionalismo la stessa negativa esperienza di francesi e tedeschi. Se certamente sono esistiti ed esistono nazioni e nazionalismi anti-democratici e aggressivi, va riconosciuto che storicamente non c’è democrazia al di fuori dello stato-nazione. L’alternativa è stata, fino ad oggi, l’impero, più o meno illuminato. Tutti gli esperimenti di stati e governi multinazionali hanno prodotto esiti non democratici e illiberali. L’Unione europea, per ora, non fa eccezione. Il caso del Regno Unito è peculiare, ma fino a settant’anni fa era anch’esso un impero.

Da una parte, guerre e massacri sono stati molto spesso scatenati dagli appetiti imperialisti di stati multinazionali nel contesto di sistemi multilaterali instabili. Dall’altra, è dal nazionalismo americano e britannico che l’Europa è stata salvata per ben tre volte nell’ultimo secolo – nel 1918, nel 1945 e nel 1989. Ed è l’hard power di una nazione, gli Stati Uniti, più che l’esperimento sovranazionale Ue, ad aver garantito settant’anni di pace sul vecchio continente. Ha scritto Margaret Thatcher nel capitolo della sua autobiografia dedicato ai principi di politica estera:

“Le nazioni, gli Stati nazionali, e la sovranità nazionale rappresentano le basi più solide per uno stabile sistema internazionale. Visto superficialmente, questo è un paradosso. Non è vero che il nazionalismo ha distrutto la pace europea in due guerre mondiali? In realtà, nel senso più importante, la risposta è: no. Lo sfondo della Prima Guerra Mondiale fu l’instabilità degli imperi multinazionali, e le religioni laiche transnazionali come il comunismo e il nazismo diedero origine alla Seconda. E in entrambi i casi solo forti Stati nazionali furono in grado di sconfiggere l’aggressione”.

D’altra parte, gli Stati nazionali non devono certo essere intesi come monadi dai confini impermeabili: “Il libero commercio significa che i confini politici non devono necessariamente essere sinonimo di confini economici”.

Dunque, dobbiamo temere di più il nazionalismo, la resilienza dell’idea di nazione, o l’imperialismo?

A questo proposito un’interessante suggestione arriva, sulle colonne del Washington Times, da Clifford D. May, presidente della Foundation for Defense of Democracies. E se invece ci trovassimo nell'”epoca del neo-imperialismo”? Dovremmo forse parlare e preoccuparci non del ritorno del nazionalismo in Occidente, ma del ritorno dell’imperialismo.

Cina, Russia e Iran, fa notare May, “sono nazioni molto diverse in parti del mondo molto diverse, ma hanno tre significative caratteristiche in comune: erano tutte, una volta, grandi imperi; sono tutte, oggi, guidate da uomini che aspirano a creare di nuovo grandi imperi; tutte considerano gli Stati Uniti come loro rivali e avversari”.

Il regime di Teheran non aspira a un impero iraniano o persiano, quindi su base nazionale. Ma come al Qaeda e Isis, a un impero islamico. Di versione sciita o sunnita, sempre di imperialismo islamico si tratta.

Il presidente Vladimir Putin mira a restaurare il ruolo della Russia come superpotenza e a questo scopo sta perseguendo una politica espansionistica erede diretta dell’imperialismo sovietico e prim’ancora zarista (l’aggressione alla Georgia, l’annessione della Crimea e il conflitto in Ucraina, l’intervento in Siria per assicurarsi basi militari nel Mediterraneo, le rivendicazioni fino ai Balcani, la violazione dei trattati sugli armamenti strategici e le tensioni con la Nato).

La Cina di Xi Jinping sta investendo risorse enormi per dotarsi di uno strumento militare capace di proiettare la sua egemonia in tutto il Sud-est asiatico, e in prospettiva persino oltre, grazie ai surplus accumulati con una politica mercantilista insinuata tra le pieghe e le lacune di un sistema di commercio globale ancora imperfetto, sfruttando le debolezze occidentali. Sta velocemente riducendo il gap tecnologico con l’Occidente grazie a pratiche scorrette in campo commerciale, come il furto di proprietà intellettuale per decine di miliardi, e sta “colonizzando” gli stati africani ricchi di materie prime. Le rivendicazioni di Pechino non si limitano alla “nazionalista” Taiwan, ma interessano già l’intero Mar Cinese meridionale.

E l’Europa? La Comunità europea, istituita nel 1957, è evoluta nell’Unione europea, in teoria una “unione tra pari” fondata sul principio di sussidiarietà, in base al quale le decisioni dovrebbero essere prese il più possibile vicino alle persone, quindi a livello locale, regionale e nazionale. Da due decenni però il centralismo franco-tedesco è preponderante e l’egemonia di Berlino appare senza contrappesi – e lo è ancora meno a seguito dell’uscita del Regno Unito. Le difficoltà nel concordare una Brexit ordinata, e non punitiva, e il Trattato di Aquisgrana, di cui abbiamo parlato ieri, sono due indizi della deriva “imperiale”, illiberale, del progetto europeo. A cui si aggiungono le ambiguità della Ue a guida franco-tedesca nella postura internazionale, troppo accondiscendente con Cina e persino Iran, e di Berlino nella sua Ostpolitik verso Mosca.

Di recente, sostenendo l’appello del suo presidente per un “vero esercito europeo”, il ministro francese dell’economia Bruno Le Maire ha rilanciato, suggerendo che l’Ue dovrebbe andare oltre e diventare un “impero” per competere alla pari con Stati Uniti e Cina: “It’s about Europe having to become a kind of Empire, as China is. And how the US is”. “Non fraintendetemi – ha aggiunto – sto parlando di un impero pacifico, basato sui principi dello stato di diritto”. Come dovrebbero prendere dalle parti di Trafalgar Square la battuta di un ministro francese che parla di fare dell’Europa un impero?

La storia è stata caratterizzata dall’ascesa e dalla caduta degli imperi, dagli scontri tra di essi, ricorda Clifford D. May nel suo articolo. Una storia che però sembrava conclusa con la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando l’Europa distrutta ha dovuto disfarsi dei suoi imperi, riconoscere l’indipendenza alle sue colonie, e gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno costruito un nuovo ordine mondiale basato sul principio dell’autodeterminazione dei popoli, su stati nazionali indipendenti chiamati a collaborare tra di essi nel rispetto di un diritto e di un sistema di istituzioni internazionali. Ma come abbiamo visto, si stanno accentuando spinte e tendenze neo-imperialiste di grandi potenze autoritarie.

Al contrario di Obama (e dell’Ue), il presidente Trump sembra aver presente questo scenario, riconoscere le minacce poste da regimi “revisionisti e revanscisti”, e ha impostato una linea di fermezza anche nei confronti dell’Europa, richiamandola alle sue responsabilità e ai suoi oneri. Ma è anche tentato dalle “voci che sia da sinistra che da destra suggeriscono il ritiro”, di dichiarare “vittoria”, laddove la vittoria non è ancora stata conseguita, e di concentrare le sue energie nel “nation-building” a casa, in America.

Un modo di pensare questo, avverte May concludendo, “non pre-11 settembre, in realtà pre-Seconda Guerra Mondiale”. “I neo-imperialisti sono decisi a plasmare un nuovo ordine mondiale, che sarà autoritario, illiberale e implacabilmente ostile agli interessi americani. Vanificare le loro ambizioni non sarà facile. Ma l’alternativa, dando loro carta bianca, sarebbe irresponsabile”.