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Draghi l’americano si smarca da Macron che si smarca da Biden. E fa bene

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Per alcuni il presidente del Consiglio Mario Draghi, ieri a Washington, ha recapitato al presidente Usa Biden il messaggio di pace dell’Europa, sposando di fatto la linea Macron di compiere maggiori sforzi diplomatici per arrivare alla fine della guerra in Ucraina. Per altri – e diciamo subito che siamo più orientati verso questa seconda lettura – si è trattato piuttosto di un contentino al partito “pacifista” nostrano, che si sta allargando a macchia d’olio all’interno dei partiti di maggioranza e sta prendendo piede anche sui media mainstream e in settori dell’establishment economico. È il fronte dei contrari all’invio di armi a Kiev – il cui effetto, a loro avviso, è quello di prolungare il conflitto – che con sempre maggiore insistenza criticano le posizioni Usa e Nato e spingono per una soluzione diplomatica, ignari o disinteressati del fatto che ad oggi non potrebbe che consistere in una resa anticipata di Kiev.

In effetti, nella parte pubblica del colloquio tra il premier italiano e il presidente statunitense, ben a favore di telecamere e microfoni, Draghi lo ha fatto presente a Biden: “… ma devo dirti che le persone in Italia e in Europa ora vogliono la fine dei massacri, vogliono la pace e ci chiedono cosa possiamo fare per portare la pace”, implicitamente sottolineando che ad oggi non facciamo abbastanza. Il primo ad applaudire, ieri sera, è stato il segretario del Pd Enrico Letta, con uno stentoreo “Draghi ci rappresenta” rivolto all’ala “pacifista” del suo partito, a cui ha dato voce l’ex ministro Delrio con la recente intervista sul Corriere.

Ma come ha osservato la Repubblica, “Draghi ha spinto sul cessate-il-fuoco anche per ragioni di politica interna, che Biden capisce. Per ottenerlo però bisogna convincere Putin, e secondo gli Usa l’unica strada per arrivarci passa dal fallimento dell’invasione”. Ieri sera, ad una domanda precisa riguardo le parole di Draghi sugli sforzi di pace, così ha risposto la portavoce della Casa Bianca: “Continuiamo ad essere aperti ad una soluzione diplomatica in Ucraina ma non vediamo alcun segnale da parte della Russia”, “i russi non sono disponibili ad una tregua”. L’indisponibilità di Putin a sedersi al tavolo delle trattative (al contrario, sembra pronto ad una guerra di mesi) sembra una realtà dura da accettare per gli europei, e comoda da ignorare per gli antiamericani, ma che Draghi ha ben presente e ha più volte sottolineato (“Putin non vuole la pace”).

Lo stesso premier, davanti a Biden, aveva premesso: “Siamo uniti nel condannare l’invasione dell’Ucraina, nel sanzionare la Russia e nell’aiutare l’Ucraina come ci chiede Zelensky“. E come ci chiede Zelensky (e Washington) significa invio di armi, anche pesanti, e superamento della dipendenza energetica dalla Russia. Possiamo solo immaginare (ed auspicare) che Draghi abbia chiesto in cambio all’alleato di sostenere il Btp italiano, sottoposto a pressioni crescenti nelle prossime settimane e mesi a causa del progressivo ritiro del sostegno Bce, e di aiutarci a trovare forniture di gas alternative a quelle russe.

Insomma, Draghi l’europeo, che rinnova a Biden la vicinanza dell’Italia ma sposa la linea Macron, oppure Draghi l’americano, che riporta il sentimento espresso nella maggioranza da quasi tutti i partiti, ma di fatto sposa la linea atlantista?

A nostro avviso la lettura più corretta è la seconda e la richiesta di maggiori sforzi per la pace recapitata ieri a Washington va inquadrata in una cornice domestica piuttosto che intesa come allineamento del premier al sempre più visibile smarcamento franco-tedesco. Un esercizio di cerchiobottismo, certo, ma della miglior scuola, per tenere unita la sua eterogenea maggioranza, dovendo fare i conti sia con i residui filorussi nella Lega e nei 5 Stelle, Conte e Salvini, sia con l’influente partito francese (il Pd), ben ramificato nelle nostre istituzioni e nel mondo economico.

Al di là delle parole di Macron sulla necessità di non umiliare la Russia, sintesi un po’ grossolana di una frase come vedremo più articolata, non v’è dubbio che dall’inizio del conflitto il presidente francese, anche per motivi elettorali, stia facendo di tutto per riaprire la via diplomatica, con frequenti e prolungati colloqui telefonici con Vladimir Putin, fino ad oggi infruttuosi.

Parigi scalpita per un negoziato con Mosca e se finora non l’ha ottenuto è solo per le resistenze del Cremlino, che evidentemente vuole prima ottenere risultati netti sui campi di battaglia. L’obiettivo dei francesi (e dei tedeschi) è la fine della guerra il prima possibile, a prescindere dal sacrificio richiesto a Kiev. L’unica preoccupazione è che l’Ucraina resti uno stato indipendente e non diventi un protettorato russo, quindi che non cada Kiev, risultato che ad oggi pare acquisito (anche se, come vedremo, solo apparentemente). Non si pongono però il problema delle conseguenze di concedere a Putin fette di territorio ucraino (ben più ampie del Donbass), qualcosa che il leader russo potrebbe facilmente presentare come una vittoria. Concessioni il cui rischio sarebbe quello di incoraggiare Putin e costituire quindi le premesse per ulteriori aggressioni future.

Insomma, si muovono sul solco degli accordi di Minsk, targati Merkel-Obama, che hanno spalancato le porte all’invasione del 24 febbraio. Parigi è ossessionata dal marcare l’autonomia francese e dell’Ue da Washington, Berlino ansiosa di porre fine alla guerra prima che sia essa a porre fine al suo modello economico basato sul gas russo e sui legami con Mosca.

L’argomento che va per la maggiore in questi giorni, evocato anche da Macron, è quello dell’umiliazione russa da evitare, perché porterebbe ad una escalation fino all’uso di testate nucleari da parte di Mosca. “Armiamo gli ucraini perché battano i russi, ma non troppo”, si legge su Limes. “Perché se la sconfitta di Putin nella sua Piccola Russia apparisse totale, il regime dunque lo Stato rischierebbe di sparire. Quanto potrebbe indurre il Cremlino alla mossa della disperazione”.

Un punto di vista non infondato, al quale però se ne può accostare uno speculare. Premesso che siamo ancora lontani da una “umiliazione” russa in Ucraina, e che anzi una vittoria russa è ancora possibile, specie se l’aiuto militare a Kiev si indebolisse (tagliare fuori l’Ucraina dal Mar Nero significherebbe di fatto porre fine alla sua esistenza come Stato indipendente), se Putin non vede nemmeno l’ombra del fallimento della sua invasione, con il rischio di un downgrade dello status internazionale della Russia e della sua personale uscita di scena, quale sarebbe l’incentivo a mollare la preda? C’è un rischio escalation anche nel lasciare intendere ad un aggressore che alla fine, anche se gli sta andando male, ci sarà una via d’uscita e sicuramente nessuna umiliazione.

La verità, scomoda da accettare, è che nessuno può sapere quale dei due punti di vista seguire, perché in gran parte l’esito dipenderà dalle scelte della leadership russa.

Ma torniamo all’integrale della frase pronunciata dal presidente francese a Strasburgo in chiusura dei lavori della Conferenza sul futuro dell’Europa: “Quando la pace tornerà sul suolo europeo, dovremo costruire i nuovi equilibri di sicurezza e non dovremo mai cedere alla tentazione né dell’umiliazione né dello spirito di vendetta”.

Qui Macron va oltre l’esortazione a non ripetere con la Russia l’errore commesso con la Germania alla fine della Prima Guerra Mondiale. Fa intravedere a Putin la disponibilità Ue a trattare con lui, nonostante l’aggressione all’Ucraina, “nuovi equilibri di sicurezza” in Europa, cioè proprio quello che il presidente russo pretendeva nei mesi precedenti l’invasione. Un conto è non umiliare la Russia, un altro è premiare Putin concedendogli di ridisegnare a suon di cannonate gli equilibri di sicurezza europei.

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