Messo al sicuro il Colle, finalmente si può votare. Nel mese di maggio, o anche giugno. No, non è una previsione, non stiamo sostenendo che si voterà, ma che dopo la rielezione di Mattarella questa opzione è unlocked, sbloccata. Il motivo principale per cui questa legislatura, pur esaurita politicamente già nel 2019, è stata mummificata e trascinata fino ad oggi, ovvero evitare che da un voto anticipato potesse emergere una maggioranza di destra che eleggesse un presidente della Repubblica di destra, è venuto meno.
Dal punto di vista del Pd, l’istituzione principale del sistema politico, il Quirinale, grazie alla quale ha potuto governare per 9 degli ultimi 10 anni nonostante consensi in calo dal 25 al 18 per cento, è stata messa in sicurezza per altri 7 anni.
Certo, ci sarebbero un altro paio di questioni da sistemare per blindare ancora di più il quadro politico in vista delle elezioni del 2023. Per esempio, una legge elettorale interamente proporzionale, di cui guarda caso si è cominciato a parlare un minuto dopo la rielezione di Mattarella e la spaccatura tra i partiti di centrodestra sul voto. Il proporzionale puro sarebbe la pietra tombale sul centrodestra e sancirebbe il definitivo superamento del bipolarismo (anche del simulacro che abbiamo oggi). Ciascuno correrebbe per conto suo, la coalizione di governo si formerebbe dopo il voto, non prima. Significherebbe di fatto precostituire la futura maggioranza di governo, a prescindere dall’esito politico del voto: una coalizione “Ursula”, già molto probabile a sistema vigente, di cui il Pd sarebbe il perno, con ciò che resta dei 5 Stelle da una parte e Renzi, centristi e Forza Italia dall’altra. Resterebbero fuori, in una nuova conventio ad excludendum, le forze di non indiscussa fede europeista.
E Draghi? La funzione politica di Mario Draghi a Palazzo Chigi si è anch’essa in gran parte esaurita con la rielezione di Mattarella. Resterebbe la seconda questione: portare a casa la ratifica del nuovo Mes – il Meccanismo europeo di stabilità – con i voti della Lega come ciliegina sulla torta. La definitiva blindatura del vincolo esterno Ue, al quale anche eventuali maggioranze euroscettiche sarebbero sottoposte.
Ma la funzione di Draghi, agli occhi del Pd e di Matteo Renzi, era quella di una safety-car, che accompagnasse la legislatura fino all’elezione del presidente della Repubblica scongiurando il voto anticipato. Il governo Conte 2 infatti era ormai decotto: sotto i colpi della pandemia, con una campagna vaccinale ancora tutta da organizzare, stava sbandando pericolosamente, rischiando di compromettere il prosieguo della legislatura, e l’ex premier non offriva sufficienti garanzie a Bruxelles di essere in grado di preparare il Pnrr, propedeutico all’emissione dei prestiti del Recovery Fund.
Insomma, se in prossimità delle votazioni per il Quirinale al premier si chiedeva di restare a Palazzo Chigi per “finire il lavoro” iniziato, ora per i principali danti causa il lavoro è concluso nella sua parte fondamentale.
Questo significa che Draghi riceverà il ben servito? No, perché nell’anno di campagna elettorale che ci aspetta avere Sua Competenza a Palazzo Chigi mette al riparo i partiti di governo dalla tempesta in arrivo, e non è detto che non possa tornare utile come premier anche all’inizio della prossima legislatura, per convincere Forza Italia e Lega, se ce ne fosse bisogno, a far nascere la maggioranza “Ursula”. Ma certamente con la rielezione di Mattarella è venuta meno l’indispensabilità di Draghi. Certo, poi bisognerà vedere se Draghi vorrà restare invischiato nella politica italiana e prestarsi a fare il parafulmine dei partiti, il che non è affatto scontato.
Non a caso nell’analizzare l’esito della partita per il Colle l’abbiamo definita guerra dei viceré. Quella tra i due candidati che abbiamo da sempre considerato gli unici davvero in campo – Mattarella (Pd) e Draghi – si può leggere infatti come la sfida tra due opzioni di commissariamento del nostro Paese, una più politica ma non priva di elementi tecnici, e soprattutto burocratici, e l’altra più tecnocratica ma non priva di elementi politici. Si è trattato di scegliere quale dei due viceré dovesse regnare in Italia per conto dell’Ue. Il Pd si ritiene l’unico garante e interprete del vincolo esterno Ue e non è intenzionato a condividere con altri questo primato. Anche perché è proprio tale primato, conquistato inglobando nel dogma europeista le sue vecchie ideologie e tutti gli interessi di cui è portavoce, che gli ha permesso di restare al governo a fronte di consensi ridotti al minimo, grazie essenzialmente al controllo del Quirinale e alle sponde esterne e interne.
Mancano le rifiniture – legge proporzionale e ratifica del Mes – ma oggi il voto anticipato è un’opzione unlocked. E con l’opzione voto unlocked, occhio al colpo accidentale. Sono diversi infatti i soggetti che deliberatamente o meno potrebbero nelle prossime settimane provocare “l’incidente” politico irreparabile.
Non sarà il Pd a premere il grilletto, ma nemmeno ha più grandi motivi per temere il colpo accidentale. Anzi, il momento sarebbe propizio: ha appena portato a casa la presidenza della Repubblica per altri 7 anni, Draghi non è più indispensabile; il centrodestra è più che disarticolato, decomposto. I 5 Stelle dilaniati dalle faide interne, non potrebbero fare altro che aggrapparsi al Pd. Aspettare il 2023 avrebbe invece almeno due controindicazioni: l’aggravarsi dello stato di salute di Silvio Berlusconi potrebbe penalizzare la performance elettorale di uno dei potenziali alleati di governo; inoltre, tutto il malcontento e la rabbia che gli italiani avranno accumulato nel corso del 2022 – anno che si annuncia ancor più drammatico dei precedenti per l’economia, tra bollette energetiche alle stelle, inflazione galoppante, interi comparti a terra, fine della politica monetaria accomodante – si riverserebbero nelle urne contro i partiti di governo.
A leggere i giornali di questi giorni, da parte sua Draghi sembra voglia continuare ad esacerbare le tensioni e le divisioni nei partiti, fino a sfasciarli, sul suo nome, scatenando il suo “esercito” trasversale a sostegno dell’agenda di governo: “ora basta compromessi”, “una riforma a settimana senza guardare in faccia nessuno”, “non arretrerà e non subirà ultimatum”, “forte di una convinzione: in tutti i partiti della maggioranza esiste un’anima governista su cui di certo fare affidamento”.
In un contesto politico che sembra una polveriera, con i vincitori della partita per il Colle in una posizione di forza e gli sconfitti che masticano amaro, basterebbe una scintilla. Il Pd non ha più alcun interesse a mediare per tenere in pista la safety-car, per lo meno non più a tutti i costi. E anche i partiti, come la Lega, che non hanno raccolto dall’esperienza di governo ciò che immaginavano, potrebbero essere meno disposti a continuare a subire.
E Mattarella, come userà il potere di scioglimento delle Camere, tornato nella sua disponibilità dopo la conclusione del semestre bianco? Per minacciare i partiti di mandarli a casa, quindi sostenendo l’azione di Draghi? O viceversa, stavolta sciogliendole, nel momento in cui la contrada Pd si trova in vantaggio sulla linea di partenza?
Insomma, in questa fase la linea “basta compromessi”, avanti “senza guardare in faccia nessuno”, dà l’impressione sgradevole di un premier a caccia dell’incidente politico che possa liberarlo dalla trappola Palazzo Chigi prima dell’arrivo della tempesta perfetta. Le divisioni nei partiti che non lo hanno aiutato ad arrivare al Colle, stavolta dovrebbero offrirgli il pretesto per salutare. Un altro ricatto politico: o pieni poteri, senza mediazioni, o me ne vado. Ma stavolta, più di qualcuno potrebbe non esserne così dispiaciuto.
In questo gioco del cerino, la Lega si trova in una posizione lose-lose: o ingoia il resto dell’agenda Draghi, o dovrà assumersi la responsabilità di aver fatto saltare il banco, uscendo da un governo in cui aveva investito molto del suo capitale politico, dando implicitamente ragione al suo competitor di destra, rimasto dall’inizio all’opposizione. In arrivo a strettissimo giro all’attenzione del Parlamento, una serie di decreti sul Green Pass ormai superati dagli eventi, oltre che di dubbia legittimità, il provvedimento sui Balneari, la delega fiscale con la riforma del catasto, la ratifica del Mes (non è un mistero che il risultato politico a cui si punta è farla passare con i voti anche della Lega).
Nelle loro valutazioni a Via Bellerio dovrebbero partire dalla constatazione che la “grande strategia” che li ha portati nel governo Draghi, e a sostenerne anche i provvedimenti più odiosi, liberticidi e contro ogni evidenza scientifica, come il Green Pass, non ha retto alla prova dei fatti. Un anno fa avevamo avvertito dei rischi di un’operazione di mero accreditamento, finalizzata cioè a trarre dal sostegno a Draghi legittimazione a livello domestico ed europeo, quella rispettabilità agli occhi dell’establishment e dei poteri Ue che avrebbe dovuto spalancare le porte di Palazzo Chigi ad un premier leghista. Il governo Draghi come occasione per archiviare la stagione dell’impresentabilità sovranista: la definimmo allora la “trappola della svolta moderata”, perché quando la patente di rispettabilità viene rilasciata – comunque revocabile in qualsiasi momento come ha dimostrato il grande scandalo a sinistra per la candidatura di Berlusconi – guarda caso sono i voti a venire meno…
Ricorderete uno degli argomenti a sostegno della partecipazione leghista al governo Draghi: dobbiamo entrare nella partita per il Quirinale, altrimenti rieleggono un presidente Pd e approvano una legge elettorale proporzionale per disgregare il centrodestra. Ebbene, la Lega di governo ha appena votato un presidente Pd e si avvicina il prossimo step: il proporzionale, su cui sono arrivate in queste ore delle aperture non solo da Forza Italia ma anche da leghisti. Dopo il sostegno a Draghi e il voto per Mattarella, sarebbe la terza prova di intelligenza col nemico.
Per riprendere l’iniziativa e provare a rimettere insieme i cocci del centrodestra, Matteo Salvini ha rilanciato ieri l’idea di una federazione, sul modello del Partito Repubblicano americano. A suggerire ai partiti di centrodestra la prospettiva del Gop Usa, adottandone la cultura fusionista, è Daniele Capezzone nel suo libro “Per una nuova destra”.
Ma sarebbe un vero peccato se una prospettiva così preziosa e lungimirante fosse buttata lì come l’ennesima boutade per riempire per qualche giorno pagine di giornale o talk televisivi. Berlusconi intanto ha rotto gli indugi, gettando la maschera: siamo di centro, basta centro-destra.
Con un sistema elettorale proporzionale o ibrido non può stare in piedi una coalizione di centrodestra, figurarsi un partito. Il Partito Repubblicano americano non sta un pezzo al governo con Biden e un pezzo all’opposizione. Il Partito Repubblicano, e i governatori Repubblicani, come Ron DeSantis in Florida, si oppongono agli obblighi vaccinali e alle restrizioni, e non hanno proposto pass sanitari definendoli “strumenti di libertà”.
Insomma, prima di lanciarsi verso obiettivi “alti”, urgono scelte di campo chiare, nette, portate avanti con coerenza.