Ci sono un certo numero di ragioni che depongono a favore del sostegno all’Esecutivo di Mario Draghi deciso da parte maggioritaria del centrodestra. Da un lato è una decisione che può consentire di incidere su alcune importanti scelte di rilancio economico. Dall’altro consente di evitare che le sinistre possano gestire decisivi passaggi istituzionali (dall’elezione del presidente dalla Repubblica alla potenziale riforma della legge elettorale) per l’ennesima volta come “cosa loro”.
Al tempo stesso, l’appoggio a Draghi deve essere concesso in un’ottica di realismo, senza immaginare che la sua ascesa a Palazzo Chigi sia accompagnata da chissà quale dirompente carica riformatrice.
Nei fatti non ci sono le condizioni perché il Governo Draghi rappresenti una discontinuità forte rispetto al Conte 2, innanzitutto perché deve comunque rispondere ad una maggioranza parlamentare all’interno della quale le forze che sostenevano il precedente esecutivo ricoprono tuttora un ruolo numericamente essenziale.
Ma il problema non riguarda solamente gli equilibri dell’attuale Parlamento. È lo stesso Draghi ad essere un “uomo del sistema”, per quanto probabilmente nell’ambito del sistema sia per molti versi un “primo della classe”.
Malgrado le illusioni di alcuni liberali, Mario Draghi resta un keynesiano che crede nel ruolo primario della spesa pubblica come stimolo alle dinamiche economiche. Il suo mandato alla Bce ha mostrato quanto fondamentalmente creda negli stimoli di natura monetaria – nella Banca centrale come “cornucopia”; è un tipo di approccio all’economia che difficilmente lo differenzia dal mainstream politico italiano. “Whatever it takes” non è, come qualcuno ha pensato uno slogan pro-mercato, anzi è una frase che massimamente riassume un approccio statalista e interventista.
Certo, Draghi è un “esperto”, ha la necessaria competenza e sensibilità per muoversi adeguatamente nei complessi contesti in cui il governo deve muoversi a livello italiano ed europeo. Ci si può ragionevolmente aspettare che sarà in grado, per lo meno, di evitare gli incidenti di percorso e gli errori più marchiani che hanno contraddistinto il governo giallorosso.
Si possono avere forti dubbi, tuttavia, che il nuovo governo possa portare all’Italia un modo di gestire la cosa pubblica significativamente più sano e aperto al mercato. La sensazione è che il mandato dell’ex governatore possa effettivamente avere qualche successo, ma che questo non dipenderà tanto da un approccio davvero più virtuoso, quando dalla maggiore capacità di fare “virtue signalling” – cioè dalla capacità di mantenere un’apparenza in grado di garantire una più alta reputazione sui giusti tavoli.
Insomma, un sostegno al governo Draghi è senz’altro possibile, per ragioni tanto politiche quanto tattiche, ma deve essere espresso senza illusioni e beatificazione, avendo presenti tutti i limiti della nuova fase che si è aperta.
È un sostegno, chiaramente, non privo di rischi, che si basa sulla scommessa di riuscire a condizionare in positivo almeno alcuni aspetti, con particolare riferimento alla restituzione di condizioni di agibilità a tanti settori importanti dell’economia.
Se la scelta di appoggio a Draghi da parte di Lega e Forza Italia comporta certamente disagio e potenziali contraddizioni, bisogna essere coscienti che anche la scelta dell’opposizione – quella compiuta da Fratelli d’Italia – non è esente da rischi ideologici.
Il principale è che chi, a destra, sceglie di rimanere fuori dal perimetro del sostegno all’ex governatore della Bce lo faccia nella mera ottica di capitalizzare l’inevitabile logoramento del governo, senza elaborare contemporaneamente un programma politico realistico per il “dopo”.
La prospettiva dell’opposizione potrebbe essere quella di puntare tutto su ricette politiche “miracolistiche” che combinino tagli di tasse ed ulteriori aumenti della spesa. Una strategia che certamente può pagare in termini elettoralistici, ma che già subito dopo il possibile successo del centrodestra alle prossime elezioni collasserebbe di fronte alla prova della realtà, in modo non diverso da come è collassato l’intero impianto politico e programmatico del Movimento 5 Stelle.
La verità è che non esistono alternative “miracolistiche” allo schema che Mario Draghi sta mettendo in campo. Esisterebbero invece alternative serie, di stampo genuinamente liberalconservatore, ma queste richiedono la presa di coscienza che non possono esistere politiche di riduzione delle imposte che non passino da una forte riduzione della spesa pubblica e quindi dal riequilibrio del rapporto tra contribuenti e beneficiari delle tasse pagate dai primi.
È un sentiero stretto, perché non prevede, semplicemente, un’opposizione che viva di rendita sul malcontento, ma richiede invece di essere pronti a cominciare a dire cose “scomode” e ad aprire una serie di conflitti “duri”, “thatcheriani”, nei confronti delle constituency che maggiormente difendono la spesa pubblica, in particolare il Sud assistito, il pubblico impiego ed il mondo della pensioni anticipate e privilegiate. Ad oggi non è certo che esista il sufficiente coraggio politico per questo tipo di percorso.
Probabilmente questa è una delle fasi politiche in cui più ancora che essere importante “dove si sta” – al governo o all’opposizione – è importante “come si sta”. La vera scelta che si pone al centrodestra – sia a quello di governo che a quello di opposizione – è se limitarsi a “navigare” questa nuova stagione politica sulla base di considerazioni di breve periodo essenzialmente orientate al voto del 2023 (o del 2022 in caso di elezioni anticipate), oppure se proporre un effettiva offensiva in termini di contenuti per avere più mercato, più sviluppo, meno Stato e meno spesa pubblica.