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E se si trovasse l’Unione europea in procedura di infrazione, senza nemmeno accorgersene?

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Lo scenario geopolitico è profondamente mutato negli ultimi anni ma a Bruxelles e nelle altre capitali europee non sembrano averne preso atto. Si parla, o meglio si chiacchiera spesso nel vecchio continente dell’Ue come attore globale al pari di Usa e Cina – ruolo da conquistare, a portata di mano o addirittura già acquisito, secondo vari gradi di ottimismo.

La realtà è che da qualche anno sembra essersi esaurita, o per lo meno essere scemata, la fase in cui il progetto europeo era visto con benevolenza dalle altre potenze. Oggi grandi e medie potenze hanno ragioni e obiettivi – certamente molto diversi tra di loro – per contrastare una Unione europea germanocentrica. E la notizia è che tra queste ci sono gli Stati Uniti, storicamente sostenitori di una Europa unita e prospera.

È stata l’amministrazione Trump la prima ad aprire una vera e propria procedura di infrazione nei confronti dell’Ue per concorrenza sleale e, diciamo, free riding sulle spalle dell’alleato Usa, anche se motivi di malcontento per la linea sempre più divergente degli europei da Washington non sono mancati nemmeno durante le presidenze Bush jr (in politica estera) e Obama (in politica economica).

L’ultimo strappo, in ordine di tempo, da parte del presidente Trump è arrivato quando l’altro ieri Mario Draghi ha fatto capire che il suo “bazooka” monetario è ancor ben carico e pronto a sparare. Il presidente della Bce ha parlato di “un ulteriore stimolo” all’economia europea, necessario “in assenza di un miglioramento, al punto che sia minacciato il ritorno di un’inflazione sostenibile ai livelli desiderati”. E in tal caso, ha ricordato, il Quantitative Easing ha ancora “uno spazio considerevole”, “ulteriori tagli dei tassi e misure per mitigare qualsiasi effetto collaterale continuano a far parte degli strumenti a nostra disposizione”. Un’uscita che ha fatto letteralmente infuriare il presidente Usa:

“Mario Draghi ha appena annunciato che potrebbero arrivare altri stimoli, che hanno immediatamente fatto calare l’euro rispetto al dollaro, rendendo ingiustamente più facile per gli europei competere con gli Usa. Sono anni che vanno avanti così insieme con la Cina ed altri… Molto scorretto nei confronti degli Stati Uniti”.

Tra l’altro, l’annuncio di Draghi suona come un’implicita ammissione di impotenza del sistema Ue. La Bce può ricorrere a tutte le armi della politica monetaria nel suo arsenale per tendere all’obiettivo di un’inflazione inferiore ma vicina al 2 per cento, ma come ha più volte ripetuto il governatore, hanno dei limiti impliciti nel sostenere la crescita e ridurre le divergenze interne. Non possono sostituirsi alle riforme e alle politiche economiche che spettano ai governi. E di tutta evidenza, se Draghi intravede la necessità di un nuovo stimolo monetario, non è perché l’Italia arranca e sta portando l’Ue in un vicolo cieco, come recita la copertina di un settimanale tedesco (sì, anche in Germania si parla alla pancia dell’opinione pubblica…). Non è colpa della Grecia, né della Brexit. Molti dei problemi dell’economia italiana sono endemici, ma se l’area euro si trova in un vicolo cieco, è perché eccessivamente dipendente dalla locomotiva tedesca, che si è fermata, e perché modellata fin troppo sulle rigidità di politica economica care a Berlino.

L’Ue a trazione tedesca ha iniziato a esportare i suoi squilibri interni, finendo per entrare in rotta di collisione con l’alleato americano. Ora da Washington è arrivato l’alt. L’America di Trump non è più disposta ad accettare la politica mercantilista tedesca sostenuta dalle svalutazioni competitive della Bce. Anche se ufficialmente, come ripete Draghi, gli stimoli monetari hanno come unico obiettivo un livello di inflazione inferiore ma vicina al 2 per cento – e il sostegno delle economie del Sud Europa, Italia in testa – è innegabile l’effetto di sottovalutazione dell’euro, a beneficio del già competitivo export tedesco. Se a ciò sommiamo regole tendenti al pareggio di bilancio, senza distinguere tra politiche pro-crescita e di semplice irresponsabilità fiscale, e l’ossessiva politica di Berlino per i surplus di bilancio, ecco che non solo non c’è modo di ridurre gli squilibri interni alla zona euro ma, anzi, gli squilibri vengono esportati e alimentati all’esterno.

In fondo, agli occhi degli americani, la concorrenza sleale europea – e tedesca – non è molto diversa da quella cinese. Sia Berlino che Pechino non possono permettersi di modificare, e tanto meno abbandonare, il loro modello di sviluppo, pena la coesione politica e sociale interna. Ma questo è divenuto insostenibile all’esterno.

Un alt molto deciso, inequivocabile, all’Ue è arrivato sempre dall’America, ma non dalla Casa Bianca. A dire “basta” è la testata principale espressione del mondo della finanza Usa, il Wall Street Journal – non esattamente il tempio della spesa e del debito facili – con un editoriale firmato dal board e intitolato emblematicamente “Lo strangolamento dell’Italia da parte dell’Europa”, uscito lunedì scorso (casualmente il giorno in cui Salvini incontrava a Washington il vicepresidente Pence e il segretario di Stato Pompeo). Sottotitolo: “L’Ue potrebbe punire Roma colpevole di spingere per una politica pro-crescita”. Incomprensibile, vista da oltreoceano.

L’apertura è già una sentenza:

“Il vicepremier italiano Matteo Salvini è il favorito prossimo primo ministro del Paese e i mandarini dell’Unione europea stanno incrementando le chance degli euroscettici. Basti vedere come Bruxelles sta gestendo la sua ultima disputa sul bilancio con Roma”.

Il quotidiano Usa definisce il cavallo di battaglia di Salvini, la flat tax sui redditi personali e delle piccole imprese fino a 50 mila euro, “la migliore idea che qualcuno a Roma abbia avuto da anni per semplificare il sistema fiscale italiano e magari ridurre l’evasione”. “Di questa proposta i mandarini dell’Ue vedono solo una perdita di gettito fiscale”, mentre “ciò che manca all’Italia è la crescita economica per espandere la base imponibile”. A Bruxelles una casta di ostinati burocrati “dimostra di non comprendere gli incentivi per la crescita”.

La conclusione del Wall Street Journal è netta e senza appello:

“L’Europa dovrebbe lasciare a Salvini e ai suoi partner di governo lo spazio per progettare un bilancio 2020 pro-crescita, e Bruxelles non dovrebbe sorprendersi se una sconsiderata battaglia contro Salvini sul bilancio rafforzerà le motivazioni degli euroscettici italiani. Il terribile decennio della Grecia dovrebbe aver insegnato a Bruxelles che l’infernale austerità di aumenti delle tasse e indiscriminati tagli alle spese non può essere l’unica politica. Il minimo che potrebbe fare è togliersi di torno mentre Roma prova a fare qualcosa di diverso“.

I “mandarini” – così il WSJ definisce i vari Moscovici, Dombrovskis e Juncker – dovrebbero togliersi di mezzo.

Insomma, dall’America di Trump il messaggio non potrebbe essere più chiaro: la pazienza è finita.

Tutto questo mentre in Italia ci toccava leggere e ascoltare gli scontatissimi e noiosissimi attacchi a Salvini da parte dei suoi avversari politici e dei giornaloni della palude italiana. Fino a ieri la Lega era il partito di Putin, da cui addirittura era finanziato, da oggi è subalterna agli Usa e la nostra sovranità svenduta a Washington. Qualcuno pensa di vendere qualche copia in più con queste banalità. La realtà è che senza alleanze l’Italia non può giocare alcuna partita in Europa, né Salvini in Italia. Partita vera, s’intende, non a chiacchiere. Germano Dottori di Limes, autore del libro “La visione di Trump”, ha commentato su Twitter:

“Avviso ai commentatori a digiuno di realismo. Se Cavour non si fosse appoggiato prima alla Francia e poi alla Gran Bretagna, col piffero che allontanava gli austriaci dall’Italia! Oggi è lo stesso. Cercare forti sostegni esterni è declinazione legittima del sovranismo”.

Qualcuno troppo accecato da non riuscire nemmeno più a ragionare di politica ci ha visto uno scandaloso paragone tra Salvini e Cavour…

Può strappare una risata la gaffe del vicepremier sulla scalinata di Rocky, ma la questione è seria. Salvini la visita negli States se l’è giocata molto bene. Forse per la prima volta da uomo di governo, oltre selfie, felpe e bagni di folla – e occorrerebbe se non dargliene atto, almeno accorgersene. In America sembra che se ne siano accorti – e spesso ci azzeccano.