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Ebola riattacca l’Africa: servizi sanitari carenti, ignoranza e conflitti non aiutano a contrastare l’epidemia

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L’epidemia di Ebola iniziata lo scorso agosto nel Nord Kivu, una provincia orientale della Repubblica democratica del Congo, è entrata in una nuova fase l’11 giugno con la scoperta del primo caso nel vicino Uganda. Il virus è stato diagnosticato a un bambino di cinque anni arrivato dal Congo due giorni prima con la famiglia. Il piccolo è deceduto il 12 giugno e il giorno successivo di Ebola è morta anche sua nonna. Otto persone che potrebbero essere entrate in contatto con i due ammalati sono state messe in quarantena. In Congo Ebola ha già ucciso 1.459 persone e continua a diffondersi. Nei giorni scorsi l’epidemia ha raggiunto la provincia di Ituri, che confina con il Nord Kivu. Nell’ultimo mese il numero delle aree colpite è passato da 21 a 22. La nuova area di contagio si trova tra Butembo, una città mercantile, e Goma, il capoluogo del Nord Kivu, con oltre un milione di abitanti, distante circa un chilometro dal confine con il Rwanda. Se Ebola raggiunge Goma, si diceva a fine maggio, il rischio che si diffonda nei paesi vicini diventa praticamente una certezza. “Ormai la questione non è se, ma quando Ebola arriverà in Uganda”, aveva detto il 23 maggio il ministro ugandese della sanita, Sarah Opendi. Ogni giorno da 10.000 a 15.000 persone attraversano il confine tra Congo e Uganda. Nei giorni di mercato anche di più. Dall’Uganda potrebbe raggiungere altri stati tra cui il Sudan del Sud… e sarebbe una catastrofe in un paese da sei anni in guerra, con un governo incapace di gestire una emergenza sanitaria.

I governi dei paesi a rischio assicurano di essere preparati. Il Rwanda, che confina con il Congo e con l’Uganda, ha intensificato i controlli alle frontiere e il governo ha invitato la popolazione a stare attenta, migliorare l’igiene ed evitare di andare in zone colpite dall’epidemia. Kenya e Tanzania hanno avviato un programma di monitoraggio delle persone in arrivo dall’estero. “I tanzaniani non si devono preoccupare, non succederà come in Uganda”, ha detto il ministro della sanità. Ma il Kenya ha 20 medici ogni 100.000 abitanti, il Rwanda ne ha 13, l’Uganda nove, il Tanzania quattro… nessuno di questi stati è in grado di far fronte a Ebola da solo: anche in tempi normali i servizi sanitari sono molto carenti e sono regolarmente integrati da organizzazioni non governative, istituti missionari e altre strutture.

Per il Congo, lo scorso agosto, si è immediatamente attivata l’Organizzazione mondiale della sanità, affiancata da Medici senza frontiere e da altre ong. Tuttavia a mala pena si è rallentata la diffusione dell’epidemia, benché per la prima volta sia stato possibile impiegare su vasta scala un vaccino sperimentale che viene somministrato, quando è possibile individuarle e raggiungerle, alle persone entrate in contatto con gli ammalati nei 21 giorni di incubazione della malattia. Eppure non solo l’epidemia si diffonde, dicono gli operatori sanitari allarmati, ma ricompare in aree in cui si pensava di aver fermato il contagio. Inoltre, riferisce Medici senza frontiere, dall’inizio dell’anno più del 40 per cento dei nuovi contagi riguardano persone morte nelle loro comunità e, a partire da marzo, il 43 per cento dei pazienti infetti non risulta avessero avuto contatti con altri casi conosciuti. Questo vuol dire che le equipe dispiegate sul territorio non riescono a raggiungere e a monitorare tutte le persone colpite. I motivi sono tanti e sono i soliti, in Africa.

Per prima cosa, gli operatori sanitari lavorano in condizioni di emergenza. Devono infatti supplire alla carenza estrema di medici, personale ospedaliero e strutture sanitarie allestendo presidi e adattando quelli esistenti e dovendo fare i conti con infrastrutture inadeguate: dalla corrente elettrica a intermittenza alle strade e alle piste maltenute, in certi periodi quasi o del tutto impraticabili. Un secondo fattore che ostacola il lavoro del personale sanitario è il difficile rapporto con la popolazione. La maggior parte degli africani ha nozioni di medicina molto limitate. Questo rende difficile far capire alla gente la necessità di evitare contatti non protetti con i malati e con ciò che li circonda: abiti, materassi, altri oggetti… Malgrado le raccomandazioni, molti si espongono al contagio. Altri ignorano le prescrizioni, convinti che il virus non esista. Altri ancora rifiutano il vaccino addirittura pensando che in realtà sia quella la causa della malattia. Per di più molti, non a torto, diffidano delle autorità e in genere di chi occupa posizioni di responsabilità. Una ricerca condotta nei mesi scorsi ha rivelato che il 36 per cento delle persone intervistate crede nell’esistenza della malattia, ma ritiene che sia stata creata o diffusa dal governo per destabilizzare il paese o per qualche altro motivo ed è quindi restia a fidarsi di chi lo rappresenta o ne è l’inviato.

Ma questa epidemia, oltre a essere la prima per cui è in uso un vaccino, è anche la prima che si verifica in un area di conflitto, infestata da decine di gruppi armati. L’allestimento degli interventi umanitari deve essere discusso con i loro leader e questo già di per sé è un problema non da poco perché provoca rallentamenti, ritardi, interruzione dei servizi. Come se non bastasse gli stessi presidi sanitari sono oggetto di aggressioni. Dall’inizio dell’anno hanno subito quasi 200 attacchi. Almeno quattro persone, tra cui un medico, sono state uccise e circa 40 ferite. Spesso, inoltre, le equipe mediche sono costrette a interrompere le attività a causa di scontri tra gruppi armati e di attacchi a villaggi in prossimità delle loro strutture.

A peggiorare il quadro, l’intensificarsi nell’Ituri degli scontri tra due etnie in perenne conflitto – i pastori Hema e gli agricoltori Lendu – dall’inizio di giugno ha messo in fuga oltre 300.000 persone. La presenza di così tanti sfollati rende molto difficile l’indispensabile monitoraggio della popolazione e ostacola ulteriormente la lotta all’epidemia.

Nonostante tutto, e malgrado insistenti pressioni da più parti, il 14 giugno per la terza volta l’Oms ha rifiutato di dichiarare l’epidemia “emergenza sanitaria internazionale” al tempo stesso accusando i governi donatori di aver messo a disposizione finora meno della metà dei capitali chiesti. Dichiarare lo stato di “emergenza sanitaria internazionale” è uno degli atti più importanti che l’Oms può intraprendere. Consente di impiegare più fondi e personale sanitario, di adottare misure di sicurezza come ad esempio la chiusura di alcune frontiere e controlli sui voli internazionali. Nel caso del Congo, autorizzerebbe interventi per fermare i combattimenti. Ma secondo l’Oms dichiarare lo stato di emergenza sanitaria internazionale complicherebbe le operazioni umanitarie e moltiplicherebbe gli spostamenti illegali da un paese all’altro.

Anche durante l’epidemia di Ebola del 2014-2016 in Africa occidentale l’Oms ha aspettato molti mesi prima di decidersi a dichiarare lo stato di emergenza internazionale. Quando si è decisa a farlo era ormai troppo tardi. Con oltre 11.000 vittime quella epidemia è la più grave nella storia della malattia.