Nel bel mezzo dell’epoca thatcheriana, l’ex ambasciatore britannico a Washington, Sir Oliver Franks, rilasciò un’intervista alla radio della BBC. Tema: l’Europa. Tra i tanti spunti offerti da un uomo che aveva girato il mondo per conto del governo di Sua Maestà, uno fu destinato ad avere un effetto imperituro. Sulla limitazione di sovranità del Regno Unito all’interno dell’Unione europea, Sir Franks disse:
“La Gran Bretagna è sempre stata interessata alla cooperazione, ma sarà sempre contraria agli istituti della cooperazione. Se sei parte, e soggetto, di una istituzione che ha una vita propria e la capacità di formulare politiche proprie, non sei più libero come lo eri prima di farne parte”.
Margaret Thatcher aveva già scandalizzato la diplomazia continentale picchiando i pugni sul tavolo per il rebate britannico e urlando “We want our money back!” – rivogliamo i nostri soldi! – ma le frasi di un alto mandarino del Foreign Office furono destinate a riecheggiare in futuro proprio in un celebre intervento della Thatcher, quello al Collège d’Europe di Bruges nel 1988. Di fronte a una platea filo-europea, e senza il consenso del ministro degli esteri, Geoffrey Howe, Thatcher affermò:
“La Comunità non è un fine ma un mezzo. Non è nemmeno un progetto istituzionale costantemente modificato a seconda dei diktat di qualche concetto intellettualmente astratto. Né deve essere irreggimentata da regolamenti senza capo né coda. La Comunità Europea deve essere il mezzo pratico attraverso cui l’Europa può assicurarsi la sua futura prosperità”.
I semi del moderno euroscetticismo britannico nel naturale partito di governo a Londra furono piantati proprio in quegli anni.
I Tories dissero così goodbye all’europeismo idealista di Ted Heath che li spinse a votare Yes al referendum sulla partecipazione del Paese all’allora CEE, in cui la Gran Bretagna era entrata nel 1973. Quel referendum divise il Labour, allora al governo, ma vide perfino Margaret Thatcher schierarsi per la conferma dell’adesione in uno sgargiante abito che metteva in risalto le bandiere delle nazioni facenti parte della Comunità.
Tuttavia, man mano che la CEE si trasformava in Unione europea, l’approccio britannico alla questione europea cambiava. Il progetto economico e commerciale cui aveva aderito il governo Tory di Heath fu soppiantato dal concetto di Unione politica e di Europa come comunità di destino. Per la destra burkeana Tory questo era inaccettabile. Emerse così, come spesso è successo nella storia, il carattere indipendentista e orientato al self-government della nazione, sempre restia ad accettare le decisioni altrui sul proprio territorio. Un carattere che portò il Regno Unito a prendere decisioni di portata storica: lo scisma anglicano di Enrico VIII; la resistenza con ogni mezzo al nazismo; e, il 23 giugno 2016, l’addio all’Unione europea.
Quando il Trattato di Maastricht venne firmato, il premier John Major – l’erede di Margaret Thatcher – ottenne l’esclusione della Gran Bretagna dalla moneta comune, da Schengen e dal social chapter (che poi Blair prontamente ratificò). Venne accolto a Westminster come un eroe. I tabloid parlarono di lui come di un nuovo grande leader nazionale. La sua gloria fu però brevissima. Nel percorso di ratifica del Trattato alla Camera dei Comuni, l’ala destra del partito conservatore gli fece vedere i proverbiali sorci verdi. Ci fu addirittura chi, come il deputato Bill Cash, mise in piedi un think-tank per vagliare ogni singolo atto proveniente da Bruxelles e verificarne la costituzionalità o meno nell’ordinamento britannico.
Maastricht fu un Vietnam per Major e la sua leadership non fu più la stessa. Il Mercoledì Nero della City, il giorno in cui la sterlina dovette abbandonare lo SME sotto l’attacco degli speculatori, fu la pietra tombale sul premier e su 17 anni di governo Tory, ma ebbe anche effetti sorprendenti: fuori dallo SME l’economia britannica, che stava vivendo una brutta depressione, tornò a crescere. Ecco perché il nuovo governo laburista che poggiava sul duopolio Blair-Brown fu più che conservativo nel suo approccio all’euro. Di fronte alle richieste provenienti da Bruxelles di aderire alla nuova moneta comune europea, Blair promise di indire un referendum che, in realtà, non vide mai la luce. Il Cancelliere dello Scacchiere, Gordon Brown, sostenuto dal Treasury, disse che prima di aderire il Regno Unito avrebbe dovuto superare un Economic Test che constava di 5 punti tra cui – il più importante – quello della convergenza economica tra lo UK e i Paesi europei. Durante il decennio di Blair il Pil britannico crebbe in media di poco sotto il 3 per cento annuo rispetto al 2 per cento dell’Eurozona, mentre il tasso di disoccupazione in Gran Bretagna era costantemente sotto il 10 per cento, cifra che veniva spesso raggiunta e superata dai Paesi leader europei, come la Francia e la Germania. I laburisti optarono così per tenere il Paese fuori dall’euro ma all’interno dell’Ue ratificando il Trattato di Lisbona del 2009. Con il ritorno al governo dei Tories la musica sarebbe ben presto cambiata.