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Ecco come e perché il Regno Unito è uscito dall’Unione europea – seconda parte

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Nel 2010 i Tories tornarono al governo. Gli anni dell’opposizione alla macchina da guerra elettorale laburista, l’eredità della Lady di Ferro e le dispute sull’Europa distrussero le leadership di William Hague, Iain Duncan Smith e Michael Howard. Il nuovo leader, David Cameron, vinse le elezioni ma fu costretto a un governo di coalizione con i LibDems di Nick Clegg, l’unico partito autenticamente pro-Ue del panorama politico britannico. L’insofferenza dell’ala destra del partito nei confronti dell’alleanza, delle politiche economiche e di quelle sui diritti civili di Cameron portarono quest’ultimo a pronunciare nella sede di Bloomberg un famoso discorso in cui promise l’indizione di un referendum in or out sull’Europa in caso di vittoria con maggioranza assoluta dei Tories alle elezioni del 2015. Era il 23 gennaio 2013 e un nuovo protagonista era emerso fuori da Westminster per dare battaglia all’establishment politico-economico britannico: Nigel Farage, leader dello UKIP, il partito indipendentista che aveva al centro del suo programma l’uscita del Regno Unito dall’Ue. Farage avrebbe vinto le elezioni europee del 2014 e del 2019, ma non sarebbe mai riuscito a entrare alla Camera dei Comuni da MP.

Ai più la promessa di Cameron sembrava impossibile da mantenere. Le politiche di austerity del governo di coalizione erano andate a colpire i cittadini britannici nei servizi a loro più essenziali e lo stesso primo ministro non sembrava avere un così ampio appeal nei confronti dell’elettorato. Eppure, il 7 maggio 2015 Cameron ottenne la maggioranza dei seggi ai Comuni. In breve tempo gli euroscettici gli presentarono il conto: il referendum su quella che da un po’ di tempo si definiva Brexit si sarebbe tenuto il 23 giugno 2016. La campagna elettorale fu combattutissima ed esacerbata da due eventi: la lotta all’interno del governo Tory tra le fazioni Remain e Leave; e l’omicidio della deputata laburista Jo Cox per mano di uno squilibrato.

Già negli anni precedenti il referendum la crisi dei debiti sovrani – Grecia ma non solo – e il suo impatto sull’euro portarono il governo Cameron ad alcune scelte tutt’altro che filo-europee. Il premier inglese mise il veto sulla nascita dello European Stability Mechanism – il cosiddetto “Fondo Salva-Stati” – e, quando nonostante il suo no la sua nascita fu istituzionalizzata, il Regno Unito si rifiutò di contribuire finanziariamente. Ecco perché un premier fondamentalmente euroscettico che fece campagna per restare nell’Unione europea non convinse: Cameron toccò il tema dell’economia ma i suoi comizi erano privi di quella verve e di quella genuinità tali da poter convincere un Paese generalmente euroscettico a votare per la permanenza. L’Unione europea ci mise del suo: la crisi dei migranti mostrò agli occhi degli inglesi la totale inadeguatezza delle politiche europee e la loro scarsa incidenza nella risoluzione dei problemi più pressanti che aveva di fronte l’Europa. La rinegoziazione dei termini della presenza del Regno Unito a Bruxelles fu l’ennesimo segnale che i buoi stavano scappando dalla stalla: poche e vaghe promesse che Cameron fece fatica a usare nella campagna elettorale.

Sull’altro fronte le punte di diamante della campagna Vote Leave erano Boris Johnson, Michael Gove e Nigel Farage, tutti più o meno convinti della necessità di rimpatriare i poteri (repatriation of powers) da Bruxelles a Londra. Il movimento anti-Ue poteva contare dunque su oratori – e pure finanziatori – di assoluto livello, oltre che su di una forza a lungo sottovalutata sia a Westminster che a Bruxelles: quella del risorgente nazionalismo inglese. La Brexit non è altro che la vittoria dell’Inghilterra come nazione preponderante all’interno del Regno Unito dopo anni di discussioni su devolution, indipendenza scozzese, riunificazione dell’Irlanda. Alcune alte sfere della società inglese hanno così voluto riposizionare l’Inghilterra al centro del progetto politico del Regno Unito: per farlo serviva una politica commerciale autonoma, frontiere e politiche sulla sicurezza da sviluppare secondo le esigenze primarie degli inglesi, una nuova collocazione geopolitica del Paese più affine all’Anglosfera e al suo passato di potenza globale che prende, per l’appunto, il nome di Global Britain. Il 23 giugno i cittadini del Regno Unito votarono per l’uscita dall’Ue. Oltre 17 milioni di voti (la maggior parte di cui in Inghilterra) sostennero Farage e soci, circa 1,3 milioni in più rispetto ai votanti pro status quo.

Si aprirono così due partite: quella per portare a termine la Brexit in un Parlamento di Remainers, e quella per la leadership dei Tories. Per quest’ultima la spuntò Theresa May, ex ministro dell’interno e remainer riluttante. Ben presto all’interno del partito la sua mancanza di empatia e la sua arrendevolezza nei confronti di Bruxelles nelle trattative per la Brexit la misero sotto il fuoco incrociato sia dei Brexiteers sia dei Remainers. Dopo avere vinto senza maggioranza assoluta le elezioni del 2017 ed essersi vista rigettare il suo accordo con Bruxelles per ben tre volte dai Comuni, May fu costretta alle dimissioni. Il resto è storia recente, con la nomina di Boris Johnson a leader del partito conservatore, la rinegoziazione – che ai più pareva impossibile – dell’accordo con Bruxelles senza l’odioso backstop nordirlandese, e la vittoria alle elezioni del 12 dicembre scorso. Accantonati gli scenari più apocalittici il Regno Unito si appresta a uscire dall’Ue in modo amichevole e cooperativo. Lo farà senza i rintocchi del Big Ben ma con la fierezza e il senso di orgoglio di chi ha scelto la propria strada.

QUI LA PRIMA PARTE

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