Spesso, come è noto, è stata usata la metafora bellica per descrivere la pandemia. Sembra dunque ragionevole far riferimento a questo registro narrativo per descrivere il fallimento dell’operazione avviata esattamente un anno fa, col famoso Vaccine Day, quando ebbe inizio la campagna vaccinale europea che avrebbe dovuto rappresentare il ritorno alla normalità.
Un primo insuccesso di questa operazione è stato il mancato “reclutamento” di una significativa parte della popolazione alla campagna vaccinale, nonostante il formidabile argomento a disposizione dell’efficacia protettiva dei diversi vaccini contro le manifestazioni più gravi della malattia. Si è invece preferito usare toni propagandistici inutilmente solidaristici – come se vaccinarsi dovesse costituire un atto rivoluzionario per costruire un mondo migliore e non un trattamento sanitario per tutelarsi e tuttalpiù proteggere le persone più care – e successivamente stigmatizzare tutti i “renitenti” e i “disfattisti”, trascurando il naturale effetto di radicalizzazione che ciò sempre comporta.
Un secondo insuccesso è stata l’erronea pianificazione della campagna vaccinale sotto due importanti punti di vista.
– Il primo concerne il continuo mutamento dell’obiettivo finale, con lo spostamento in avanti della percentuale di popolazione da vaccinare, che ha sortito l’indiretto effetto di demoralizzare le truppe, che vedono allontanarsi ogni volta il traguardo della vittoria e, soprattutto, iniziano a pensare che il proprio stato maggiore affronti la guerra senza una precisa strategia: nessuno ama essere condotto in battaglia da qualcuno che sembra non avere la minima idea di cosa fare.
– Il secondo riguarda il momento temporale dell’introduzione del Green Pass – in questa sede tralasceremo tutti gli aspetti critici di questa misura (a parere dello scrivente, odiosamente costrittiva e invasiva della libertà di scelta terapeutica in assenza di un obbligo legale) – la quale è avvenuta, come si ricorderà, alla fine dello scorso mese di luglio, ma se ne discuteva già da almeno un paio di settimane. Dunque la c.d. “spinta gentile” alla vaccinazione, ossia l’effetto costrittivo a sottoporsi ad un determinato trattamento sanitario onde evitare effetti negativi distinti e diversi da quelli prodotti dal morbo, è stata data in piena estate con la conseguenza che un numero significativo di individui ha avuto la massima protezione vaccinale prima dell’arrivo del Generale Inverno che, come la storia militare insegna, è capace di determinare radicali sconvolgimenti di campagne belliche pianificate senza tenerne debitamente conto.
Si potrà obiettare che nessuno poteva saperlo prima. Ciò non è però corretto. Infatti, senza smarrirsi nella selva di dichiarazioni rese, già ad agosto Israele iniziava la somministrazione della terza dose a causa della progressiva perdita di protezione del vaccino e numerosi studi ripresi dalla stampa confermavano questo dato. Infatti diversi commentatori evidenziavano la discrepanza temporale tra la copertura vaccinale e la validità del Green Pass e il rischio di ingenerare comportamenti rischiosi per una falsa sicurezza di immunità.
Un terzo motivo di insuccesso dell’operazione concerne la sconfitta della battaglia “Salvare il Natale”, che doveva rappresentare l’obiettivo strategico da non dovere assolutamente fallire per non rendere agli occhi dell’esercito vani gli sforzi compiuti. Se si paragona i vaccinati a soldati in trincea che attendono la fine dell’incessante fuoco dell’artiglieria pesante (la campagna vaccinale) per sferrare l’assalto finale, ben si può comprendere lo stato di frustrazione degli stessi quando alla fine ci si accorge che si è guadagnato tuttalpiù qualche metro: si è dunque sostanzialmente allo stesso punto di quando era iniziato il bombardamento a tappeto. E questo non significa, ovviamente, affermare che le “bombe” non erano efficaci, ma che evidentemente era sbagliata la strategia, sempre ammesso che se ne avesse una.
E forse è proprio questo che sta ingenerando sconforto nelle truppe lungamente provate da due anni di martellante propaganda e da misure di contenimento che stanno principalmente svolgendo il compito di complicare la vita piuttosto che quello di contrastare il contagio. Paradigmatico di ciò sembra essere il ritiro prima dell’inizio della pausa natalizia da parte dei genitori dei figli dalla scuola per il timore non che si ammalino, ma che questi siano costretti alla quarantena per un contatto con un positivo.
L’auspicio finale è che i nostri strateghi non rimangano prigionieri dei loro errori, ostinandosi a reiterarli, magari aggravando i limiti già esposti, come sembra indicare la progressiva adozione di ulteriori certificati superlativamente denominati (super green pass; mega green pass; super mega green pass ecc.) che aggiungerebbero confusione ad una situazione già di per sé caotica. Parimenti inutile sembra essere insistere sulla linea di persuasione costrittiva, magari con l’estensione dell’obbligo vaccinale, il quale avrebbe la particolare singolarità di essere l’unico nel nostro ordinamento relativo ad un trattamento che non garantisce l’immunità, a differenza di tutti gli altri vaccini obbligatori, e, soprattutto, deve essere somministrato con una frequente periodicità, forse due o tre volte l’anno.
Se cessasse il clima di isteria collettiva, chiunque si renderebbe conto che ciò sarebbe irragionevole e sproporzionato e potrebbe determinare anche un singolare tipo di contenzioso legale, non tanto quello contro le reazioni avverse che sarebbe garantito dalla tutela indennitaria prevista dalla legge in caso di vaccini obbligatori: la richiesta di risarcimento danni nei confronti dello Stato da parte di individui (o dai loro eredi) che abbiano completato il ciclo vaccinale nei modi e tempi previsti dalla legge e che ciononostante abbiano contratto gravemente la malattia. Forse può essere utile ricordare chi è il nemico di questa guerra: il virus. E qualsiasi strategia da elaborare deve avere il principale obiettivo di sconfiggerlo, anche parzialmente, cioè con la progressiva riduzione dei suoi danni, senza smarrire il nostro stile di vita, la nostra democrazia, la nostra umanità. Altrimenti, in ogni caso avremmo perso.