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Ecco come il presidente Conte ha distanziato anche democrazia e stato di diritto

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Voglio analizzare la questione del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo durante questo periodo di emergenza. Innanzitutto devo premettere che “la Costituzione non va in vacanza”, per usare le parole di Marta Cartabia, presidente della Corte costituzionale; non è che i diritti umani non esistono più e dobbiamo sottostare ad ogni decisione dell’autorità costituita qualunque essa sia. Tanto per cominciare. rimane in vigore l’articolo 2 “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, che prevede non solo l’attestazione formale, ma la tutela di tali diritti, tra l’altro anche per quanto riguarda i gruppi, le associazioni, le comunità. Ma a maggior ragione rimane valido l’articolo 13, quello della libertà personale, che dice:

“Non è ammessa alcuna forma di detenzione, di ispezione e perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi stabiliti dalla legge”.

È prevista dunque una “riserva di legge”, per quanto riguarda le libertà personali: ogni limitazione va espressamente e tassativamente prevista dalla legge e ovviamente per “legge” si intende o la legge ordinaria del Parlamento approvata da entrambe le Camere oppure un “atto avente forza di legge”, come appunto il “decreto-legge”, non il Dpcm (Decreto del presidente del Consiglio dei ministri).

A questo punto mi aspetto un’obiezione: “Eh, ma siamo in situazione di emergenza”. Al che rispondo subito: andiamo avanti nella lettura dell’articolo 13, che continua così:

“In casi straordinari di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore si intendono revocati e restano privi di ogni effetto”.

Anche qui si parla di tutt’altro di quanto realizzato dal premier Giuseppe Conte, che ha emanato Dpcm a profusione che hanno stabilito norme precise e limitative della libertà personale. Come ha potuto fare tutto questo il nostro “avvocato” (peraltro civilista, lavora in un campo totalmente diverso da quello del diritto costituzionale o amministrativo)? Perché i decreti-legge sono stati molto generici ed hanno lasciato un ampio margine di azione al governo.

Ora me ne aspetto un’altra, di osservazione: “Ma l’atteggiamento del governo è giustificato dalla gravità della situazione: questa pandemia è come se fosse una guerra!”. A parte il fatto che il confronto non regge da nessun punto di vista (tanto per dire, qui si sono avuti poco più di 350.000 morti in tutto il mondo, contro i 75 milioni della Seconda Guerra Mondiale), l’operato del governo non mi sembra giustificabile neanche alla luce della Costituzione la quale prevede, all’articolo 78: “Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”. Un conferimento di poteri straordinari è avvenuto semmai in Ungheria, da parte del Parlamento nei confronti di Victor Orbàn, non certo in Italia, dove Giuseppe Conte ha deliberato da solo lo “stato d’emergenza” dal 31 gennaio fino al 31 luglio 2020 ed ha emanato di sua iniziativa una serie di decreti-legge e Dpcm senza alcuna autorizzazione preventiva dei rappresentanti del popolo. Con la precisazione che, mentre i decreti-legge sono atti legislativi che devono essere convalidati dalle due Camere entro 60 giorni, i decreti del presidente del Consiglio dei ministri sono semplici atti amministrativi tramite i quali Giuseppi ha bellamente “scavalcato” il Parlamento. Anzi, l’utilizzo eccessivo di Dpcm ha ingenerato una grande confusione nella gente comune, la quale ormai è convinta che a decidere sia il solo governo e che il Parlamento non abbia più alcun potere. Per cui se si vuole ottenere qualcosa (ad esempio le riaperture delle attività economiche) bisogna fare pressione sull’Esecutivo e non sul Legislativo.

Ma veniamo ai casi di contestazione delle disposizioni governative. Se l’autorità di pubblica sicurezza deborda dai poteri che le sono conferiti (con “multe” date in una certa quantità anche a persone che rispettavano le precauzioni stabilite) i suoi atti possono essere “impugnati” e le sanzioni annullate per “illegittimità” (contrarietà a norme di legge). Ovviamente ciò può avvenire se i comportamenti sanzionati non siano stati espressamente vietati da un atto avente valore di legge. Si può poi presentare ricorso anche contro lo stesso atto amministrativo, per illegittimità o per incostituzionalità. Ma chi ha i soldi per andare in tribunale? A dire il vero esiste la possibilità di presentare ricorso cumulativo, come esiste anche la “class action”, ovvero l’azione di una intera categoria (ad esempio le imprese operanti nel settore della ristorazione).

Ma per capire ancor meglio la situazione vorrei soffermarmi sui casi riguardanti la lesione della libertà religiosa, vera “cartina di tornasole” del rispetto delle libertà democratiche. Qui a dire la verità si è “surclassato” l’articolo 19, che parla della libertà della persona di esprimere la propria fede:

“Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale ed associata, di farne propaganda e di esercitarne in pubblico e in privato il culto”.

Ma è stato “ignorato” anche l’articolo 7 della Costituzione “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”, con l’approvazione, da parte dello Stato italiano, di misure restrittive delle celebrazioni adottate senza accordo con l’autorità ecclesiastica. Poi sono venuto a conoscenza di un certo numero di abusi nei confronti dei sacerdoti (cattolici) che hanno “osato” celebrare i Sacramenti (Messa ma anche Battesimi). Probabilmente Conte non conosce l’articolo 405 del codice penale, che recita: “Chiunque impedisce o turba l’esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto di una confessione religiosa, le quali si compiano con l’assistenza di un ministro del culto medesimo o in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico, è punito con la reclusione fino a due anni”.