Immagina di avere un inquilino moroso, non solo non ti paga, ma ti odia pubblicamente. Dopo anni che non ti paga l’affitto, tu vinci la causa, ma lui si rifiuta di farsi sfrattare e chiama a raccolta gli amici. Non è proprietario, la magistratura gli ha dato torto, ma insiste, perché vive da decenni in quella casa e perché ritiene che sia importante. Quando poi la causa arriva all’ultima udienza, i suoi amici arrivano a sparare in casa a te e a tutti i tuoi concittadini. No, non stiamo parlando del futuro dell’Italia, quando sbloccheranno la sospensione degli sfratti, ma della guerra scoppiata questa settimana in Israele. Tutti i commenti, politici soprattutto, ma anche giornalistici, si appellano a valori universali. Eppure la questione è semplice: è scoppiata sul diritto di proprietà di un gruppo di case del quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme, fra chi lo vuol difendere nelle aule dei tribunali (Israele) e chi lo vuol negare, privilegiando l’uso della forza (Hamas).
Per tutti quelli che “la situazione è complessa”, va premesso: la causa di sfratto di Sheikh Jarrah è certamente una scintilla che ha fatto scoppiare qualcosa di molto più grande che covava da tempo sotto le ceneri. Per le implicazioni politiche e strategiche della guerra in corso, rimando all’esauriente articolo di Federico Punzi, pubblicato su queste colonne. Come non si può dire che la “causa” della Grande Guerra fosse l’attentato di Sarajevo, anche il processo per lo sfratto di inquilini palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah è un pretesto per far scoppiare un conflitto (si spera piccolo e breve, non una nuova guerra mondiale) già latente da anni. Ma anche i pretesti sono importanti per capire la natura di un conflitto e perché lo si combatte.
Sheikh Jarrah è un quartiere orientale di Gerusalemme che sorge su un terreno di proprietà ebraica. Un vecchio frutteto, che prese il nome dal medico personale del Saladino (che pare sia sepolto lì) venne acquistato, nel 1875, da due rabbini, Avraham Ashkenazi e Meir Orbach. Da notare la data: 1875, quando tutta Gerusalemme era ancora una città dell’Impero Ottomano. L’acquisto era motivato dall’importanza religiosa di quel terreno: lì si trova la tomba di Simeone il Giusto, rabbino che accolse a Gerusalemme Alessandro Magno, meta di pellegrinaggi. Da allora ad oggi la proprietà è sempre stata indiscutibilmente ebraica. Nel 1946, quando Gerusalemme, finito l’Impero Ottomano, era ancora parte del mandato britannico di Palestina, la proprietà venne trasferita a due associazioni non-profit ebraiche: Va’ad Eidat HaSfaradim e Va’ad HaKlali L’Knesset Yisrael. Quando Israele dichiarò l’indipendenza allo scadere del mandato britannico, nel 1948, Gerusalemme venne invasa dalla Giordania, uno degli Stati arabi che non avevano riconosciuto la legittimità del nuovo Stato ebraico e lo voleva annientare sul nascere. Gli ebrei vennero scacciati da Sheikh Jarrah, così come da tutti gli altri quartieri orientali occupati e dalla città vecchia, incluso il Muro del Pianto. La conquista militare giordana di Gerusalemme e di tutti i territori che oggi sono chiamati Cisgiordania, non venne mai legalmente riconosciuta.
Eppure è dall’occupazione giordana che nasce la questione palestinese di Sheikh Jarrah. Nel 1956 il regno di Amman decise infatti di trasferirvi famiglie di palestinesi sfollati, offrendo loro case in cambio della rinuncia dello status di rifugiati. Coloro che andarono ad abitarvi erano gli avi di quelli che ci abitano adesso. Ma non avvenne mai alcun trasferimento di proprietà. La Giordania promise il possesso di quelle case e di quelle terre per il futuro. Ma il “futuro” riservò un’altra guerra, quella dei Sei Giorni, che si concluse, come tutti sanno, con una rapida vittoria israeliana e la riunificazione di tutta Gerusalemme sotto lo Stato ebraico. Neanche questa venne riconosciuta internazionalmente, poiché con la risoluzione 262 l’Onu chiese a Israele di ritirarsi entro la linea armistiziale della guerra precedente, che divideva ancora in due Gerusalemme. Ma nessuno ha mai messo in discussione la proprietà privata delle due associazioni ebraiche su Sheikh Jarrah. Nel 1973 queste registrarono il loro terreno formalmente presso il governo di Gerusalemme. E nel 1982 una sentenza (che è alla base delle sentenze attuali) la confermò: anche i residenti palestinesi del quartiere riconobbero la proprietà ebraica. E sono dunque da considerarsi a tutti gli effetti come degli inquilini.
Nel 2003 la proprietà passò ad un’altra associazione non-profit ebraica, la Nahalat Shimon che entrò in conflitto con gli inquilini, rei di non pagare e di aver effettuato dei lavori edilizi non autorizzati. Il nuovo proprietario volle così intentare una causa di sfratto e riservare quella proprietà a cittadini ebrei (“coloni” secondo la dizione più diffusa nei media). Nell’ottobre 2020 una sentenza del Tribunale dei Magistrati di Gerusalemme, poi confermata il 10 febbraio scorso da un’altra sentenza del tribunale distrettuale, ha condannato allo sfratto sei famiglie palestinesi. È questo l’oggetto del contendere. La causa per i palestinesi non è ancora perduta, deve infatti pronunciarsi la Corte Suprema. Ma nel frattempo Hamas ha deciso di ricorrere all’uso della forza, senza attendere il processo.
Dalla parte di Israele la motivazione è chiara: suoi cittadini sono proprietari e difendono il loro diritto. Dalla parte palestinese? Non riuscendo a produrre le prove che dimostrino il loro diritto di proprietà, si appellano ad una serie di princìpi morali e religiosi: il fatto che quella fosse terra islamica e dunque non cedibile a non musulmani, il diritto al rientro dei rifugiati palestinesi (in tutta la ex Palestina britannica), il più generico diritto all’abitazione e un’ancor più generica rivendicazione di popolo perseguitato da uno Stato considerato occupante e oppressore. Che però non è occupante: sono ancora territori contesi; nemmeno la precedente occupazione giordana era mai stata riconosciuta e uno Stato palestinese non è mai esistito in passato.
Senza generalizzare troppo, gran parte delle cause del conflitto mediorientale sono legate proprio alla difesa dei diritti di proprietà privata, con organizzazioni ebraiche che, nel corso di un secolo, hanno acquistato terre (spesso svendute da notabili arabi e ottomani in quanto poco redditizie) per realizzare, pacificamente, il sogno sionista. Con buona pace di chi vede in Israele un regime guerrafondaio fondato sulla conquista e l’usurpazione, il nucleo dello Stato ebraico è invece fondato su terreni acquistati e fatti fruttare. Sono semmai gli arabi che, a indipendenza di Israele già ottenuta, vogliono quelle terre nel nome di valori collettivisti. Non a caso, a difendere i palestinesi sono soprattutto i comunisti, oltre che agli islamici.