Nella partita tra Stati Uniti e Iran, è l’Iraq che sembra essere diventato il terreno dello scontro. Come ritorsione per l’inserimento dei Pasdaran nella lista delle organizzazioni terroristiche, Teheran ha scelto di inserire le forze armate schierate in Medio Oriente nella lista delle organizzazioni terroristiche, intendendo chiaramente che i principali obiettivi saranno appunto i soldati americani presenti oggi in Iraq (circa 5.200 soldati).
Qualche giorno fa, quindi, l’indiscrezione diffusa dalla stampa americana secondo cui gli Stati Uniti sarebbero addirittura pronti a schierare 120.000 soldati in Medio Oriente per contrastare l’Iran. Notizia bollata da Trump come “fake news”, ma che rende bene l’idea di quanto la tensione sia alta.
Oggi la domanda delle domande è quindi sempre la stessa: ci sarà una guerra tra Stati Uniti e Iran? Premesso che durante le fasi di escalation della tensione tirare conclusioni è impossibile (perché la situazione può sfuggire di mano a chiunque), alla base le due parti non vogliono arrivare ad un conflitto. Trump, con la strategia di massima pressione, vuole fiaccare l’economia iraniana, facendo scendere l’export di petrolio sotto i 700.000 barili al giorno, costringendo il regime khomeinista alla trattativa. Di contro, a Teheran stanno iniziando a reagire, come si è visto con le crisi tra Gaza e Israele (palesemente fomentate dall’Iran attraverso la Jihad Islamica) e con gli attacchi alle petroliere negli Emirati Arabi Uniti e agli oleodotti sauditi da parte degli Houthi.
Se però Gaza, Golfo e altre aree come la Siria, sono per il regime iraniano “zone di provocazione” – ovvero aree da sfruttare per colpire il nemico e mandare messaggi – l’Iraq è una cosa diversa. In Iraq, lo scontro rischia davvero di diventare incontrollabile e le ragioni vanno ben oltre la questione nucleare o dei missili. In Iraq, infatti, l’Iran è da anni impegnato in una campagna imperialista, di conquista di parte del Paese – e del potere centrale a Baghdad – che ha come scopo l’espansione sia geopolitica che religiosa.
Dal punto di vista geopolitico, basta guardare una mappa per capire perché l’Iraq fa gola all’Iran: la regione irachena al confine con l’Iran è praticamente la sola pianeggiante per Teheran, ovvero la sola che permette fisicamente alla Repubblica Islamica di espandersi, senza barriere fisiche. Ne esiste una “politica”, ovvero la regione iraniana dell’Ahvaz, dove vivono gli iraniani di etnia araba e fede sunnita. Teheran però reagisce a questo “problema” reprimendo da anni ogni forma di dissenso interno e considerando gli arabi di quell’area come una “quinta colonna” (anche perché si tratta praticamente della zona più ricca a livello petrolifero). Ecco perché, sfruttando la caduta di Saddam, la compiacenza dell’ex premier iracheno al-Maliki e soprattutto il folle ritiro obamiano dall’Iraq, Teheran ha riempito la regione di milizie paramilitari sciite, alcune di queste al soldo dei Pasdaran.
La regione sciita irachena che confina con l’Iran, però, è per il regime iraniano fondamentale anche sotto il profilo religioso. I centri spirituali principali dello sciismo infatti non si trovano in Iran (dove c’è Qom), ma in Iraq, prima fra tutti la città di Najiaf. Da qui è sempre arrivata la grande delegittimazione alla visione khomeinista dello sciismo. Qui, per mezzo dell’ayatollah al-Sistani, è sempre stato insegnato che la Velayat-e Faqih – il sistema di potere che vige in Iran con al vertice la Guida Suprema – non ha nulla di religioso, ma è puramente una questione politica, contraria al tradizionale quietismo sciita. Ed è qui che, da anni, i khomeinisti stanno cercando di fare proseliti, per legittimare la visione iraniana dello sciismo.
La battaglia vera tra Iran e Occidente, ovvero tra Iran e Stati Uniti, ovvero tra Iran e mondo sunnita non salafita, si combatte quindi in Iraq. Per vincerla la strategia deve essere molto chiara: servono il sostegno delle forze sunnite nel Paese (che altrimenti sosterranno nuovamente le peggiori forme di salafismo), il sostegno religioso di nuovi clerici sciiti, che ottengano il rispetto che ha oggi al-Sistani (ovviamente da lui legittimati), e soprattutto serve giocare sulle divisioni intra-sciite, come quelle che oggi si vedono nello stesso mullah al-Sadr – e nel suo partito Saairun, nato per combattere la corruzione e critico verso l’ingerenza iraniana nel Paese. Nonostante l’accordo stipulato dallo stesso al-Sadr con il partito Fatah (praticamente una coalizione di gruppi politici armati asservita e finanziata dall’Iran), è anche su al-Sadr che è necessario puntare, per impedire una unione di forze sciite favorevoli a Teheran.
In Iraq quindi, la battaglia è veramente seria e aperta da anni. È qui che la Repubblica Islamica punta a far passare il corridoio sciita che, come noto, ha come terminale ultimo la Siria, ovvero il Mar Mediterraneo. È qui che l’Occidente deve fermare l’Iran a qualunque costo!