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Ecco perché l’epoca della Cina come “fabbrica del mondo” potrebbe volgere al termine

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Nel 2018 sembrava che la relazione politica ed economica tra il Giappone e la Cina stesse entrando in un’epoca d’oro. Nonostante trascorsi storici tumultuosi, in primis l’invasione giapponese della Cina nella Seconda Guerra Mondiale, il motivo del riavvicinamento era fondamentalmente uno: la Cina era, ed è tutt’ora, in larga misura il Paese verso cui il Giappone esporta più merci, per 136 miliardi di dollari. Dunque, dal punto di vista economico aveva molto senso che il governo giapponese cercasse di avere buone relazioni con il suo più grande partner commerciale, cercando in un certo senso di lasciarsi il passato alle spalle.

Eppure, solo due anni dopo la situazione appare molto diversa. Il governo presieduto da Shinzo Abe ha deciso, con una mossa che ha preso molti di sorpresa, di favorire lo spostamento della supply-chain giapponese al di fuori della Cina. Il fondo che è stato messo a disposizione per raggiungere questo obiettivo è di circa 1,9 miliardi di euro per le compagnie che decideranno di rimpatriare la propria produzione di merci dalla Cina al Giappone, oltre che 200 milioni di euro per quelle che sposteranno la propria manifattura dalla Cina ad altri Paesi asiatici. Il Giappone si è reso conto che non conviene “tenere tutte le uova nello stesso paniere”, per quanto riguarda la produzione di molti prodotti, da quelli medici alla componentistica per automobili. Nel caso in cui in Cina si verificasse uno stop di produzione, come avvenuto con l’emergenza coronavirus, allora questo sarebbe un grave problema non solo per le compagnie giapponesi ma per tutti i suoi cittadini.

Il Giappone non è l’unico Paese che si sta adoperando per raggiungere questo obiettivo. Anche gli Stati Uniti e l’Europa rientrano in questo gruppo. Un esponente dell’amministrazione Trump, il direttore delle politiche sul commercio e la manifattura Peter Navarro, e il senatore repubblicano Marco Rubio, hanno sostenuto che il Covid-19 ha messo nero su bianco l’eccessiva dipendenza dell’America dalla Cina per quanto riguarda la produzione di medicine e materiale medico. Secondo gli ultimi dati, il 97 per cento degli antibiotici usati in America sono prodotti in Cina, oltre che il 95 per cento di ibuprofene, 91 di idrocortisone e 70 di paracetamolo. I due legislatori americani sostengono che sia giunto il tempo di invertire la supply-chain e far rimpatriare questo segmento manifatturiero negli Stati Uniti, anche al fine di preparare il Paese a future possibili epidemie. Nella mente di Peter Navarro questo sarebbe un primo passo verso l’obiettivo del decoupling, la “separazione economica e politica” futura tra i due Paesi. Finora l’Europa si era presentata come il campione del libero scambio, in aperta contrapposizione alle politiche protezionistiche di Trump. Ma il coronavirus sembra aver fatto vedere anche all’Europa che affidarsi ad un solo Paese, in questo caso la Cina, non conviene, soprattutto in un settore così delicato e per certi versi strategico come quello farmaceutico.

Se lo stesso ragionamento fosse applicato ad altri segmenti di produzione, allora l’epoca della Cina come la “fabbrica del mondo” potrebbe rapidamente volgere alla fine.

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