L’ideologia finisce per confondere le regole del gioco (il diritto) e gli scopi dello stesso (la politica), creando una sorta di ircocervo pericolosamente simile a quelli che furono tipici dei regimi totalitari del ‘900, come ad esempio il concetto espresso da Lenin di “legalità rivoluzionaria”, cioè del diritto inteso come mezzo per realizzare la società socialista… La confusione tra diritto e politica, tra potere giudiziario ed esecutivo, corrompe sia l’uno che l’altro
Le intercettazioni telematiche relative a presunte pressioni da parte di alti magistrati (e dei loro presunti suggeritori politici) al fine di incriminare per il reato di sequestro di persona l’allora ministro dell’interno Matteo Salvini per avere cercato di impedire l’ingresso nel nostro Paese di immigranti illegali è una vicenda che qualunque ne sia l’esito, non fanno onore alla magistratura italiana, non fa onore allo stato di cui facciamo parte, ma che prima di tutto e sopra a tutto non fa onore al diritto, il quale più che una scienza costituisce un’arte, l’arte dell’applicazione delle regole ai rapporti sociali, grazie alla quale vengono a precisarsi i diritti e gli obblighi sia dei privati che dei titolari dei poteri pubblici. Sulla vicenda è già stato scritto molto: in queste brevi riflessioni mi limiterò a partire da una delle frasi che sarebbero state intercettate ad un magistrato, il quale avrebbe definito l’incriminazione del ministro come un atto “indifendibile”. Si tratta di un’affermazione tanto evidente che non avrebbe bisogno di illustrazioni, ma dato che la tesi opposta è riuscita ad affermarsi finendo per guidare l’azione di alcuni magistrati e per riscuotere il consenso di alcuni giuristi, nonché il plauso di molti politici e di parte dei mass media e dell’opinione pubblica, ritengo utile un approfondimento al riguardo.
L’incriminazione del ministro è giuridicamente indifendibile sia come incriminazione in sé che riguardo al reato contestato, il sequestro di persona: sotto entrambi gli aspetti essa va a scontrarsi con alcuni dei principi fondamentali di logica e di buon senso che stanno alla base dell’arte giuridica e che fanno sì che il diritto (pur discutibile nei suoi esiti, come tutte le discipline umanistiche, ma la cosa non è molto diversa per quelle scientifiche) sia qualcosa di differente rispetto ad una serie di decisioni irragionevoli e non giustificabili. Il diritto è infatti l’arte di conoscere di enunciare (ius dicere, da cui iurisdictio) le regole della società e dello stato e non quello di stabilire gli obiettivi di interesse collettivo che spettano invece alla politica. Il potere giudiziario quindi non deve avere una volontà (politica o morale) propria, ma deve limitarsi a valutare la legittimità del comportamento altrui: per questo Montesquieu lo chiamava il potere “neutro”. In tal modo (e non sembri un gioco di parole) il compito del diritto è quello di tutelare i diritti, sia quelli dei privati sia quelli dei titolari degli organi politici (e ciò vale a maggior ragione per gli organi supremi dello stato come è il ministro dell’interno), e davanti ai diritti ogni azione giudiziaria deve fermarsi, pena il rischio di cadere in una dittatura dei togati non meno pericolosa di quelle di un esecutivo autoritario.
Che il ministro dell’interno abbia il diritto (oltre che il dovere) di applicare una legge che vieta l’immigrazione clandestina, impedendo l’ingresso di immigranti irregolari è una realtà che difficilmente si può contestare. Né i trattati né i principi generali del diritto internazionale (compresi quelli sul soccorso in mare) impongono alle autorità pubbliche di uno stato di accogliere stabilmente, a tempo indeterminato gli immigranti irregolari; in caso contrario non avrebbe più senso l’esistenza dei confini e di comunità statali distinte. Se pertanto il ministro, forte dell’appoggio della maggioranza parlamentare e monte della legittimazione del voto popolare, ha il diritto di decidere la politica dell’immigrazione, di fronte a questo diritto l’azione giudiziaria penale deve fermarsi come davanti ad un limite invalicabile, oltre il quale il potere giudiziario viene meno (“carenza di potere” si direbbe tecnicamente). A livello pratico lo stesso codice penale (art. 51) prevede che non si ha reato quando chi agisce lo fa nell’esercizio di un diritto o nell’adempimento di un dovere, cosa che vale tanto per il poliziotto che usa la forza per arrestare un rapinatore quanto per il ministro nel caso in esame.
Indifendibile giuridicamente è però anche la qualificazione del comportamento del ministro come “sequestro di persona”, un reato punito in maniera pesante ed inoltre particolarmente odioso, che accomunerebbe l’agire del titolare di uno dicasteri fondamentali della Repubblica a quello dei terroristi islamici, delle brigate rosse, dell’anonima (sarda e non sarda) degli anni passati. A questo proposito sono decisive le conseguenze dell’azione del presunto reo sulla presunta vittima (quello che tecnicamente si chiama “elemento oggettivo” del reato): nel delitto di sequestro di persona (art. 605 codice penale) la vittima viene privata della propria libertà personale in quanto è (in genere) costretta all’interno di uno spazio più o meno limitato senza possibilità di muoversi. Quando invece alla vittima viene semplicemente impedito di recarsi in un luogo determinato e/o di accedere ad esso, ferma restando la sua libertà di muoversi e di andare altrove il reato da contestare è invece quello di violenza privata (art. 610 codice penale: lo commette ad esempio il condomino che impedisce all’altro condomino di parcheggiare nel cortile comune). Non occorrono molte disquisizioni per capire che, anche se per assurdo (negando quello che si è detto sin qui) il ministro fosse imputabile penalmente per il suo agire, non potrebbe essere accusato di sequestro di persona, dato che né gli immigranti né gli operatori delle ong sono stati privati della loro libertà personale di recarsi in altri Paesi (compresi quelli di partenza), ma è stato loro solamente impedito di sbarcare in Italia.
Perché dunque accuse giuridicamente indifendibili possono non solo essere formulate ma trovare ampi settori di consenso tra i giuristi e tra le persone non specializzate nella materia? Anche chi scrive è uomo di mondo e non vuole certo negare l’esistenza in tal senso, nella magistratura e altrove, di interessi inconfessabili, ma questo non spiega la facilità di questo stravolgimento del diritto. Uno stravolgimento che si può spiegare invece con quella che Marx chiamava la “falsa coscienza della realtà” prodotta dalle ideologie, una falsa coscienza che coinvolge (e questo è il suo aspetto più inquietante) anche molte persone in buona fede, e che non risparmia certo il mondo del diritto nel quale compie danni altrettanto devastanti quanto quelli che produce in altri settori della vita sociale. Nel nostro caso, ad osservare bene, possiamo notare che le accuse al ministro sono originate e alimentate da un potente motore ideologico, che coinvolge settori molto ampi delle società italiana e in genere delle società occidentali, rappresentato dalla visione globalista e politicamente corretta della vita associata. Si tratta di una visione secondo la quale il genere umano è inevitabilmente in cammino verso la realizzazione di un mondo perfetto (di un paradiso su questa terra) dove non esisteranno più frontiere, non esisteranno più differenze sociali ed economiche tra gli uomini (anche se magari ridotti in povertà in nome della decrescita felice), una visione che riferendoci al regno di mille anni dei giusti in questo mondo di cui parla l’Apocalisse si usa definire “millenarista”.
Questa visione della società stravolge il senso di tutti i rapporti umani, e di conseguenza stravolge anche il senso dei rapporti giuridici. La funzione del diritto cessa di essere quella di regolare i rapporti sociali nella (imperfetta) realtà presente, lasciando aperta la possibile futura modifica in un senso o nell’altro delle regole, e diviene invece quella di prescrivere il percorso, peraltro ritenuto inevitabile, attraverso cui gli uomini potranno giungere al mondo perfetto, quello della cittadinanza mondiale e dell’eguaglianza economica. In tal modo si giunge ad affermare che i cittadini stranieri (tipicamente gli africani) più poveri degli italiani (peraltro purtroppo tutt’altro che benestanti) quando chiedono di immigrare nel nostro Paese non avanzano una pretesa politica o morale che il governo, seguendo la volontà del Parlamento, per motivi politici o morali (magari criticabili, ma rispettabili) ha il potere di decidere se accogliere o no, ma viceversa fanno valere un vero e proprio diritto che il governo ha l’obbligo di accettare, pena la sanzione prevista per chi viola i diritti altrui. Inoltre, quella che (a parte i casi di fuga da guerre, da valutarsi comunque sempre tenendo conto delle scelte politiche dei vari stati) è una libera scelta, cioè di emigrare in Italia diventa un atto spinto dalla necessità, cioè dalla tendenza inevitabile a superare le ingiuste diseguaglianze che ancora impediscono di realizzare il mondo perfetto. Una volta ammesso che l’emigrante agisce per una necessità inderogabile e che non ha alternative, il consentire l’approdo stabile nel nostro Paese (il che va ben oltre il sempre doveroso soccorso in mare) diventa quindi un dovere giuridico e il mancato accoglimento diventa un sequestro di persona perché priva l’emigrante dell’unica libertà che ha, quella di stabilirsi in Italia, dato che tutte le altre possibilità (il ritorno in patria, l’approdo in altri Paesi) sarebbero contrarie al diritto “evolutivo” che prescrive il modo di giungere al mondo perfetto.
Questa concezione ideologica finisce per confondere le regole del gioco (il diritto) e gli scopi dello stesso (la politica), creando una sorta di ircocervo pericolosamente simile a quelli che furono tipici dei regimi totalitari del ‘900, come ad esempio il concetto espresso da Lenin di “legalità rivoluzionaria”, cioè del diritto inteso come mezzo per realizzare la società socialista (un’altra versione del mondo perfetto). In tal modo, a prescindere dalla buona o dalla mala fede dei singoli (che non spetta a chi scrive accertare), si giunge alla confusione tra diritto e politica e di conseguenza alla confusione tra potere giudiziario ed esecutivo e a causa di tutto ciò ad essere indeboliti sono prima di tutto il diritto e il potere giudiziario. La politica infatti quando viene collegata all’uso ideologizzato del diritto vede aumentare oltre il lecito il suo potere sui cittadini (sopprimendo di fatto la contrapposizione democratica tra opinioni diverse); il diritto invece se collegato a fini politici, se non limitato a “dire” le regole perde tutta la sua consistenza e quasi “evapora” diventando solo un mezzo per realizzare gli scopi ritenuti da alcuni socialmente “giusti” ai quali subordinare tutte le regole di convivenza, e questo finisce inevitabilmente per far assumere al potere giudiziario un ruolo solo “strumentale” alla politica che annulla totalmente la sua autonomia. La trasformazione delle regole giuridiche in precetti politici e dei giudici in governanti con la toga rappresenta uno dei caratteri tipici di uno stato totalitario, una realtà che possiamo cercare di evitare che si realizzi anche contribuendo a smascherare l’ideologia, come quasi sempre un’ideologia “millenarista”, che sta alla sua base e che ne alimenta lo sviluppo.