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Eliminato non solo un terrorista ma il mastermind di tutta la strategia imperialista iraniana

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“Adesso vediamo quali saranno le conseguenze”… È così che praticamente aprono molti dei giornali occidentali, americani compresi, dopo l’uccisione di Qassem Soleimani, potente comandante della Forza Qods iraniana. E su questa lunghezza d’onda anche i Democratici americani, a quanto pare più preoccupati di sottolineare i rischi di questa azione ordinata da Trump piuttosto che l’indiscutibile successo militare nella lotta al terrorismo internazionale.

Perché sia chiaro, l’azione americana contro Qassem Soleimani rappresenta una azione di contrasto al terrorismo internazionale. Soleimani, infatti, era un terrorista, riconosciuto come tale dalle stesse Nazioni Unite. In questo senso, i fatti sono i fatti. Al di là della recente propaganda iraniana, che sfruttando la minaccia Isis e l’appeasement obamiano era riuscita praticamente a dipingere questo terrorista come un combattente della libertà dei tempi moderni.

Rimettiamo allora le cose in ordine: Soleimani non era un terrorista qualunque, ma il mastermind di tutta la strategia imperialista iraniana. Era infatti il comandante dell’unità speciale dei Pasdaran – la Forza Qods, o Forza Gerusalemme – adibita all’esportazione della rivoluzione del 1979 fuori dai confini iraniani, come voluto da Khomeini, che vedeva la rivoluzione a Teheran come il primo passo per controllare l’intero mondo islamico. E Soleimani era colui che in questi anni si era adoperato per trasformare Paesi come il Libano, l’Iraq, la Siria, lo Yemen e aree come la Striscia di Gaza in vere e proprie province iraniane.

A tale scopo Soleimani, insieme ai comandanti Pasdaran, ha finanziato, armato e sostenuto il peggior terrorismo internazionale e colpito gli interessi occidentali ovunque fosse possibile. Basti ricordare quanto fatto da Hezbollah in Libano, dove questo gruppo terrorista – proxy iraniano per eccellenza – ha compiuto i crimini peggiori e creato uno Stato e un esercito paralleli, indisponibile a disarmarsi anche davanti alle reiterate richieste della fantomatiche Nazioni Unite…

Dopo il ritiro americano dall’Iraq nel 2011 e dopo l’accordo sul programma nucleare iraniano del 2015 – entrambi voluti dall’allora presidente Usa Obama – Soleimani ha avuto praticamente mano libera per espandere il potere del regime iraniano fuori dai confini nazionali. In primis in Iraq, a dispetto delle sanzioni Onu che, teoricamente, gli avrebbero dovuto impedire di viaggiare all’estero…

Perché Trump ha voluto colpire Soleimani solo ora? A questa domanda si possono dare diverse risposte, alcune delle quali – quelle sostenute dai critici del presidente Usa – si concentrano sulla campagna per la rielezione, sulla questione dell’impeachment o sulla mera sconsideratezza dell’inquilino della Casa Bianca. Tralasciando quest’ultima pregiudiziale motivazione, possiamo dire che indubbiamente tutti i presidenti, alla vigilia delle nuove elezioni, sfruttano le opportunità che hanno per elevare la loro popolarità. Detto questo, si tratta comunque di letture assai parziali.

Perché quando si decide di colpire uno come Soleimani – con le ovvie conseguenze che ne scaturiranno – è chiaro che il messaggio è più ampio e più profondo. Dopo anni in cui l’Iraq e mezzo Medio Oriente sono stati lasciati alla mercé delle milizie paramilitari sciite sostenute dall’Iran, gli Stati Uniti hanno finalmente deciso di reagire. Lo hanno fatto prima rigettando l’accordo sul nucleare e inserendo tutto il corpo dei Pasdaran nella lista delle organizzazioni terroristiche, e ora colpendo direttamente il terrorista che, per eccellenza, in questi anni ha colpito maggiormente i soldati americani dislocati in Iraq e non solo.

D’altronde, lo avevamo scritto mesi addietro su Atlantico: è in Iraq che si gioca la partita geopolitica più importante tra Stati Uniti e Iran, perché è qui che Washington sa di dover fermare l’imperialismo iraniano. L’Iraq, sia per ragioni geografiche che religiose, rappresenta l’area cardine di espansione dell’imperialismo iraniano e bloccarlo qui, in qualsiasi modo, avrà un effetto diretto sull’intera strategia regionale di Teheran. Ovviamente, sarà una lotta all’ultimo sangue, che supererà i confini stessi dell’Iraq. Purtroppo, però, considerata l’espansione che la disastrosa strategia di Obama ha concesso a Teheran negli ultimi dieci anni, si tratta di un prezzo da pagare per poter trovare una nuova stabilità nella regione.

Al contrario di quanto raccontato dai media mainstream in questi anni, e al contrario di quanto sostengono i leader del regime iraniano quando viaggiano in Occidente, l’Iran non è un fattore di stabilità nel mondo, ma probabilmente l’attore principale di instabilità e diffusione del terrorismo. Lo è in Medio Oriente in primis, ma non solo. Lo è in America Latina, dove controlla per mezzo dei Pasdaran anche il traffico di cocaina, e lo è anche in Europa, dove solo l’anno scorso ha provato ad organizzare almeno quattro attentati terroristici nelle maggiori capitali europee.

L’uccisione di Soleimani quindi è un messaggio rivolto non solo a Teheran, ma anche a tutti coloro che hanno pensato che la proliferazione delle milizie paramilitari sciite in Medio Oriente fosse un processo senza ritorno. Un messaggio a tutti coloro che ritengono, ormai passivamente, che ormai non è possibile liberarsi di forze eversive e terroristiche come Hezbollah. In questo senso, non può essere un caso che questa azione arrivi proprio mentre gli sciiti iracheni e quelli libanesi – ovvero coloro che per eccellenza dovrebbero gradire il controllo iraniano – hanno inziato a ribellarsi, protestando contro l’influenza iraniana nei loro Paesi (manifestazioni represse nel sangue proprio dalle forze paramilitari sciite finanziate dall’Iran).

Invece di perdere tempo a chiedersi quali saranno le conseguenze dell’uccisione di Soleimani – tema di cui dovrebbe occuparsi l’intelligence – l’Occidente dovrebbe stringersi senza se e senza ma intorno all’amministrazione Usa. Il che non significherebbe solo sostenere Trump in una legittima azione di contrasto al terrorismo internazionale, ma sostenere anche la lotta di liberazione delle popolazioni in Medio Oriente – in primis in Iraq e Libano – dall’imperialismo iraniano, intriso di principi propri della jihad e totalmente contrari ad ogni valore di libertà e di rispetto dello stato di diritto. Significherebbe anche dare finalmente una speranza a chi, in Iran, manifesta gridando nelle piazze “No Gaza, No Libano, la mia vita solo per l’Iran”, ovvero ai milioni di cittadini iraniani che vorrebbero vivere in un Paese normale.

Come suddetto, non sarà una liberazione a costo zero, ma si tratta di un percorso necessario per riequilibrare le forze in campo in Medio Oriente dopo anni di passività. Passività che ha incoraggiato Teheran a calcolare di poter impunemente abbattere un drone americano in acque internazionali, colpire delle petroliere negli Emirati e lanciare persino dei missili contro una raffineria saudita dal territorio iraniano.

Dunque, contrastare l’imperialismo iraniano è l’unica via realista per cercare di dare un futuro di stabilità alla regione, un futuro in cui a farla da padrone non siano centinaia di milizie jihadiste, asservite a questa o a quella ideologia religiosa. Un messaggio all’Iran sciita, ma non solo…

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