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Emergenza del diritto: ecco perché “parlamentarizzare” i Dpcm può essere una toppa peggiore del buco

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Se l’opposizione è convinta dell’illegittimità della pratica di regolazione a mezzo di Dpcm dovrebbe attivarsi nelle sedi opportune, non seguire anch’essa la strada della “parlamentarizzazione”

Diverse settimane fa, abbiamo aggiunto la nostra voce a quella di alcuni giuristi (in verità pochi) che avevano evidenziato il rischio che l’emergenza sanitaria potesse trasformarsi anche in emergenza del diritto. Nel frattempo, il fronte “critico” si è allargato e ha registrato l’adesione, diretta o indiretta, di autorevolissime voci (da ultimo, si è registrato l’altissimo monito istituzionale della presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia): queste critiche hanno, a un certo punto, trovato un sostegno anche in pezzi dell’attuale maggioranza governativa e ciò ha spinto, probabilmente, lo stesso presidente del Consiglio a difendere, pubblicamente e in più occasioni, la scelta di agire attraverso gli ormai celeberrimi Dpcm. Siamo ancora convinti che il ricorso a questo strumento sia stato infelice e, fino all’adozione del decreto legge n. 19/2020, anche “illegittimo”: e riteniamo di trovarne una conferma nel fatto che lo stesso Governo, con il decreto-legge da ultimo citato, ha parzialmente corretto la direzione di marcia intrapresa con il precedente decreto n. 6/2020, riconoscendo implicitamente la fondatezza di alcune delle obiezioni che gli erano state mosse (una su tutte: il ricorso a vere e proprie norme “in bianco” incompatibili con la riserva di legge che la Costituzione pone a presidio delle libertà individuali fondamentali). In ogni caso, ci saremmo attesi che, una volta imboccata la strada del progressivo e graduale ritorno alla normalità, il Governo avrebbe abbandonato la pratica dei Dpcm.

Così non è stato. E, bisogna sottolinearlo, non solo per una certa ritrosia dell’Esecutivo, ma anche per una evidente debolezza del Parlamento: il primo (comprensibilmente?) restio a cedere i poteri a sé avocati, il secondo (incomprensibilmente?) indisposto a far valere le proprie prerogative costituzionali. In questo quadro si inserisce l’approvazione – da parte della Camera dei Deputati, in sede di conversione del decreto n. 19/2020 – di un emendamento (presentato dal deputato Pd Stefano Ceccanti) che punta a conseguire quella che è stata definita la “parlamentarizzazione” dei Dpcm. L’emendamento prevede che il presidente del Consiglio (o un ministro da lui delegato) debba “illustrare preventivamente alle Camere il contenuto dei Dpcm, al fine di tenere conto degli eventuali indirizzi dalle stesse formulati”. Se ciò non fosse possibile, “per ragioni di urgenza connesse alla natura delle misure da adottare”, il premier o il suo delegato dovranno comunque riferire alle Camere nel contesto dell’informativa ex art. 2 co. 5 decreto n. 19/2020. Lo scopo dell’emendamento – che si ispira alla legge n. 234/2012 sui rapporti tra Parlamento e Governo in relazione all’Unione europea – è, in tutta evidenza, quello di consentire un certo recupero della centralità del potere legislativo: e se nessuno può dubitare della bontà di un simile fine, ci sembra che qualche seria obiezione possa essere mossa rispetto alla scelta del mezzo.

Nel nostro sistema istituzionale, è il Governo a dipendere dal Parlamento, non il contrario, dal momento in cui è il secondo l’organo ad essere direttamente eletto, e dunque direttamente responsabile, non il primo. Pertanto, l’unico soggetto dotato dei poteri necessari per incidere sui nostri diritti e sulle nostre libertà è il Parlamento, non il Governo: sicché, un emendamento che si limita a chiedere all’Esecutivo di illustrare di fronte a deputati e senatori i contenuti del Dpcm in approvazione (senza che il primo sia vincolato a recepire le indicazioni dei secondi, ma – soltanto e bontà sua – “a tenerne conto”) non serve a restituire centralità alle Camere, ma a ridurle “a un cagnolino di compagnia, che può tutt’al più abbaiare, ma non mordere” (così Giovanni Guzzetta sul Riformista). Serve, cioè, ad aggiungere un ulteriore tassello a quel surrettizio passaggio da una Repubblica “parlamentare” a una “governamentale” che si sta registrando negli ultimi decenni. Anche il riferimento alla legge n. 234/2012 ci convince poco: nel caso dei rapporti con l’Unione europea, è il Governo ad avere “istituzionalmente” il compito di decidere, e quindi ha senso prevedere un obbligo rafforzato di partecipazione “indiretta” del Parlamento a quel processo; ma in politica interna, è il Parlamento ad avere il potere e la responsabilità della decisione: e non ha bisogno di alcuna concessione dell’Esecutivo per far valere la propria voce. Non vediamo neanche come l’emendamento possa realizzare quell’effetto “indiretto” – affermato da Ceccanti – di disincentivazione dell’uso dei Dpcm, nel momento in cui pone dei vincoli alla loro adozione: d’altronde, un “limite” che consente al Governo addirittura di riferire entro quindici giorni dall’adozione del Dpcm sembra molto poco “disincentivante”…

Va posto un punto fermo. Come non si deve ricorrere ai Dpcm privi di legittimazione per governare l’emergenza, così non c’è bisogno di un emendamento come quello in parola per riaffermare il controllo del Parlamento sul Governo: è sufficiente una maggioranza semplice dei deputati e dei senatori per modificare i decreti-legge presentati dall’Esecutivo, così da privarlo della base giuridica per adottare i Dpcm o, almeno, da limitarne la potestà regolamentare. Di contro, il processo di “parlamentarizzazione” rischia di essere controproducente nella misura in cui finisce per legittimare questa prassi, potenzialmente elevandola a modello ordinario di regolazione dei rapporti tra Parlamento e Governo. È così peregrino immaginare che, d’ora in avanti, si troverà sempre una situazione che, se non proprio “emergenziale”, sarà comunque così seria e grave da richiedere l’adozione di un decreto-legge che autorizzi il potere esecutivo ad agire a mezzo di atti amministrativi, con la previsione di un mero onere di tenere informato il Parlamento? A noi non sembra, vista l’esperienza della “legislazione d’emergenza” degli anni passati, con l’emergenza che passa e la legislazione che resta. “Si dirà: se va contro l’indirizzo del Parlamento, il Governo ne pagherà le conseguenze. Certo, come può sempre pagare le conseguenze dei propri atti in un regime parlamentare. Peccato che nel frattempo i cittadini saranno vincolati dalla decisione del presidente del Consiglio non da quella, dal medesimo ignorata, del Parlamento” (così sempre Guzzetta).

D’altro canto, è necessario un po’ di realismo “politico”. L’emendamento in parola è stato proposto da un deputato della maggioranza, che quindi ha scontato la difficoltà di dover difendere un principio importante (e che sappiamo essergli a cuore) senza poter mettere in “imbarazzo” il governo e i suoi colleghi. Ma dov’è l’opposizione? Se è vero che non si dovrebbe mai giurisdizionalizzare un problema politico, è altrettanto vero che può e deve farsi valere l’illegittimità di atti politici che esondano dai loro limiti giuridici: in altre parole, non si deve chiedere ai Tribunali di sostituirsi nel merito alla decisione politica, ma di verificare che questa sia stata presa nel rispetto dei dettami costituzionali e ordinari (si pensi alla recente decisione del TAR Calabria sull’ordinanza della presidente Santelli). Se l’opposizione è convinta dell’illegittimità della pratica di regolazione a mezzo di Dpcm dovrebbe attivarsi nelle sedi opportune, non seguire anch’essa la strada della “parlamentarizzazione”, sebbene in forma più stringente!

Il tema dell’impugnazione richiede, certo, la previa individuazione del giudice competente: le opinioni espresse in dottrina oscillano tra chi ritiene sufficiente ricorrere al giudice amministrativo e chi suggerisce la necessità di sollevare conflitto di attribuzioni di fronte alla Corte Costituzionale. Entrambe le strade sono in astratto percorribili, ma la preferibile – viste le circostanze del caso concreto – sembra quella di sollecitare una pronuncia del Giudice delle Leggi: d’altronde, proprio quest’ultimo ha di recente ammesso la legittimazione dei singoli parlamentari a sollevare il conflitto in caso di violazioni gravi e manifeste delle prerogative che la Costituzione attribuisce loro. In definitiva, proprio perché si possono avere idee diverse sulla legalità o meno dei Dpcm adottati in forza del decreto-legge n. 19/2020 (noi qualche dubbio lo abbiamo, specie in riferimento a quelli pensati per gestire la cosiddetta “fase 2”), una parola definitiva in proposito pronunciata dalle Corti supreme non può che essere la benvenuta. Nel frattempo, però, sarebbe opportuno evitare di “mortificare” ancor di più le prerogative del Parlamento: deve, infatti, ribadirsi con forza che non si può continuare a cedere al governo margini sempre più ampi e discrezionali di azione, in assenza di adeguati contrappesi e processi di responsabilizzazione. Ne va del rispetto delle nostre libertà individuali.