C’è qualcosa di sbagliato nel nostro approccio alla pandemia. Da quattordici mesi perseguiamo un obiettivo irrealizzabile, quantomeno nel breve periodo: “Covid zero”. L’idea che, prima o poi, il virus se ne andrà. Purtroppo la storia insegna che difficilmente i virus svaniscono. Semmai vanno incontro a mutazioni che li rendono più o meno aggressivi. Un governo responsabile dovrebbe focalizzarsi sulla campagna vaccinale, cercando il più possibile di limitare i danni. In Italia, quando a governare era Giuseppe Conte con il “supporto” mediatico di Rocco Casalino, i risultati sono stati modesti, per non dire drammatici. Nel momento più buio dell’emergenza sanitaria, il nostro Paese ha registrato il maggior numero di decessi in Europa. Oltre al danno anche la beffa: ci hanno tenuti chiusi in casa dicendoci, ad ogni conferenza stampa notturna, che i nostri sacrifici economici e psicologici avrebbero garantito un periodo di maggior serenità. Non è stato così.
Un anno e mezzo dopo l’inizio della pandemia, i parametri scientifici su cui il governo basa le proprie decisioni non sono cambiati. Invece di tenere sotto controllo i decessi e le ospedalizzazioni — come ha suggerito il governatore del Veneto Luca Zaia in un’intervista al Corriere della Sera — continuiamo a monitorare la curva epidemiologica, come se il numero di positivi (non di malati) rappresentasse il dato più importante. E ancora: perché prorogare lo stato d’emergenza al 31 dicembre? Perché continuare a trattare il Covid come un fenomeno emergenziale? Le pandemie sono sempre esistite. Pensiamo alla Peste nera che nel Trecento falcidiò un terzo della popolazione europea oppure alla più recente influenza Spagnola che solo in Italia, all’inizio del secolo scorso, uccise 600 mila persone. Dalla notte dei tempi i virus nascono, evolvono e si ripresentano periodicamente sotto vesti più o meno minacciose.
“Convivere con il virus”, così avevano intimato televirologi e media mainstream. Un consiglio di apparente buonsenso che però nasconde un messaggio subliminale, difficile da comprendere ma non per questo meno dannoso. Negli anni a venire non dovremo abituarci a convivere con il o i virus. Dovremo imparare a convivere con un nuovo modo di intendere la società: non solo la politica, ma ogni aspetto della nostra vita. I poteri decisionali che abbiamo affidato a Parlamenti ed altri organi democraticamente eletti verranno sempre più relegati nell’ambito di una rappresentanza formale, incapace di incidere sul flusso degli eventi. Le autorità sanitarie acquisiranno sempre più importanza, arrivando a scavalcare le altre istituzioni.
Ci aveva visto lungo Antonio Martino, grande economista liberale:
“L’impiego di argomentazioni scientifiche volte a distogliere la percezione del rischio, terrorizzare l’opinione pubblica e indurre le autorità politiche all’adozione di misure restrittive delle libertà individuali (…) rappresenta nient’altro, nella quasi totalità dei casi, che uno strumento di lotta che gli statalisti di ultima generazione conducono ai danni delle nostre libertà.”
Non è un complotto concepito da poteri occulti, come qualche no-vax vorrebbe far credere. È la conseguenza pratica delle decisioni assunte da alcuni governi europei in questi due anni di ordinaria follia. Forse stavolta riusciremo a cavarcela, posticipando di qualche anno il destino che incombe sulle nostre democrazie. Forse la linea chiusurista di Speranza & Co. cesserà temporaneamente grazie alla ragionevolezza di Mario Draghi. Ma cosa accadrà quando, fra venti/trent’anni, ci troveremo di fronte alla prossima pandemia? Agiremo secondo logica o in preda alla Grande Paura? E se il tasso di mortalità del prossimo virus fosse superiore a quello del Covid come ci comporteremo, tenendo conto di come abbiamo agito oggi? Nessuno di noi è in grado di rispondere. Sappiamo però che alcuni precedenti storici sono pericolosissimi. Almeno quanto un fiume in procinto di straripare.