Sviluppi importanti a tutti i livelli nella giornata di ieri sul conflitto in Ucraina.
Partiamo dalla fine. Il bizzarro comunicato in cui il governo polacco ha di fatto avanzato la sua proposta per “girare” i suoi Mig-29 all’Ucraina. Evidentemente per uscire dal pressing ucraino e americano, Varsavia si è offerta di trasferire i suoi aerei alla base Usa di Ramstein (Germania), in cambio di un numero equivalente di jet americani delle stesse capacità (gli F-16), come lasciato intendere dal segretario di Stato Usa Blinken. “A disposizione del governo Usa”, da Ramstein potrebbero poi essere trasferiti in Ucraina. In questo modo non sarebbe direttamente la Polonia, ma sarebbero gli Usa, a fornire i Mig agli ucraini e i polacchi non vedrebbero ridotta la loro forza aerea. Ebbene, la sottosegretaria di Stato Usa Victoria Nuland cade dalle nuvole: non ne sapevamo niente. In serata, il portavoce del Pentagono John Kirby ha rimandato la palla nel campo polacco, di fatto smentendo anche Blinken. Spetta a Varsavia la decisione di trasferire o meno i suoi jet agli ucraini, la loro proposta evidenzia le “complessità logistiche” della questione: “la prospettiva di caccia a disposizione del governo degli Stati Uniti in partenza da una base Usa/Nato in Germania per sorvolare lo spazio aereo ucraino conteso con la Russia solleva serie preoccupazioni per l’intera alleanza… Non crediamo che la proposta della Polonia sia sostenibile”. Ma è sostenibile per la Polonia assumersi interamente e in solitudine la responsabilità di questa decisione, privandosi di un pezzo della propria forza aerea? Washington se ne lava le mani…
La stessa Victoria Nuland, impegnata in audizione davanti alla Commissione Affari esteri del Senato, ha poi combinato un pasticcio sulla storia dei laboratori biologici in Ucraina, già oggetto della propaganda russa e cinese. Ad una domanda del sen. Marco Rubio (Rep) sull’esistenza o meno di armi biologiche e chimiche nel Paese, la Nuland ha risposto che ci sono “laboratori di ricerca biologica” e che gli Stati Uniti stanno lavorando con il governo ucraino per impedire che cadano nelle mani delle forze russe. Non weapons, ma research facilities. Il problema è che la risposta della Nuland è stata sufficientemente ambigua da fornire benzina alla propaganda russa e ai complottisti. Un tema delicato che in ogni caso andava gestito diversamente. E, soprattutto, sapendo dell’invasione con mesi di anticipo, avrebbero potuto metterli in sicurezza prima.
Sempre nella giornata di ieri, è arrivato dal presidente Biden l’annuncio del divieto di importazioni di petrolio, gas e carbone russi negli Stati Uniti. Un blocco di cui si vociferava da giorni. Il premier britannico Johnson ha annunciato che entro la fine dell’anno il Regno Unito sarà in grado di fare altrettanto, mentre lo stesso presidente Biden ha chiarito che al contrario degli Usa, gli alleati europei “non possono fare questo passo”. Almeno si chiude l’incertezza sulla questione, infatti le Borse hanno reagito bene, anche se le quotazioni del petrolio sono aumentate fino a circa 130 dollari al barile.
Una mossa politicamente rischiosa. Spieghiamo perché. Usa e Uk importano un quantitativo residuale di petrolio e gas russo rispetto al loro fabbisogno complessivo (rispettivamente il 7 e l’11 per cento del petrolio importato) e inoltre le sanzioni in vigore stanno di fatto già bloccando l’export di petrolio russo. A fronte quindi di un danno aggiuntivo minimo per la Russia (cosa diversa sarebbe stato sanzionare chiunque acquistasse petrolio russo), il rischio politico è di mostrare le prime crepe tra gli alleati sulle sanzioni e, soprattutto, di esporre limiti e vulnerabilità dei Paesi europei. Finché l’esclusione del settore energetico russo dalle sanzioni poteva sembrare una scelta condivisa tra Usa e Ue, un’opzione sul tavolo che per il momento si decideva di non esercitare, la decisione di Washington formalizza il fatto che gli europei semplicemente non possono permettersela a causa della loro dipendenza energetica dalla Russia. Un pericolo, quello della defezione europea causa ricatto energetico, che avevamo già segnalato su Atlantico Quotidiano.
E lo dice lo stesso Biden: “Siamo esportatori netti di energia quindi possiamo permetterci questo passo e gli altri no, ma stiamo lavorando a stretto contatto con l’Europa e i nostri partner per sviluppare una strategia di lungo termine per ridurre anche la loro dipendenza dall’energia russa”.
Già domenica scorsa il segretario di Stato Blinken aveva reso noto alla Nbc che tra gli Usa e i loro alleati erano in corso “discussioni molto attive” sul bando dell’import di petrolio e gas russi. Se è stato un modo per tastare il terreno sui mercati e il polso degli alleati, le risposte sono arrivate il giorno dopo. Lunedì nero per tutte le Borse e prezzi di petrolio e gas su nuovi record.
Da Berlino, il cancelliere Scholz si affrettava a chiarire che “i bisogni energetici Ue non possono essere garantiti senza le importazioni dalla Russia e la Germania non ha in programma di sospenderle”. “Al momento non c’è altro modo per garantire l’approvvigionamento energetico dell’Europa per il riscaldamento, la mobilità, elettricità e l’industria. Ecco perché l’Europa ha deliberatamente escluso la fornitura di energia dalle sanzioni”, definendo “una decisione consapevole da parte nostra mantenere i rapporti con imprese russe nel campo dell’approvvigionamento energetico”. Stessa posizione espressa dal premier olandese Rutte: un bando delle importazioni energetiche russe sarebbe un “errore”, un “rischio inimmaginabile”. In che modo, d’altra parte, mettere in ginocchio l’economia europea aiuterebbe gli ucraini e contrasterebbe le mire di Putin?
Dunque, se fino ad oggi Stati Uniti, Regno Unito e Ue avevano mostrato una grande compattezza, persino oltre le aspettative, sia sulle sanzioni che sugli aiuti militari, dal pressing Usa per sanzionare petrolio e gas russi, e per fornire aerei da combattimento all’Ucraina, sono emerse le prime crepe e una certa confusione.
Mosca potrebbe decidere di approfittarne. Subito dopo l’annuncio del ban Usa, il Cremlino ha fatto sapere che il presidente Putin ha firmato un decreto che introduce fino al 31 dicembre 2022 il divieto di import ed export di alcuni prodotti e materie prime, da e verso alcuni Paesi, “per salvaguardare la sicurezza della Russia”. Ha dato quindi mandato al governo di stilare la lista dei Paesi e dei beni oggetto dei divieti. Mosca colpirà i Paesi europei dove hanno mostrato di essere più vulnerabili, bloccando le forniture di gas?
L’ipotesi di sospendere il flusso di gas via Nord Stream 1 era stata minacciata il giorno prima dal vice primo ministro russo Novak: sarebbe giustificato, date le “accuse infondate contro la Russia in merito alla crisi energetica in Europa e al blocco del Nord Stream 2 … i politici europei ci stanno spingendo in questa direzione con le loro dichiarazioni e accuse”.
Quali conclusioni si possono trarre da queste due vicende? Che Stati Uniti ed Europa sembrano aver raggiunto le loro linee rosse nella difesa dell’Ucraina, sia in termini militari che economici. E non è un caso, forse, che ieri da Kiev sia giunta la prima vera disponibilità ad un compromesso con Mosca (mentre dal Cremlino si continua a pretendere una capitolazione).
Comprensibilmente, il presidente Zelensky ha provato a coinvolgere più direttamente la Nato nel conflitto, ma a questo punto gli ucraini devono aver concluso di aver ricavato il massimo dall’Occidente: l’Europa non metterà a rischio le importazioni di gas e petrolio russi, la Nato non approverà una no-fly zone – che avrebbe oltrepassato il livello di coinvolgimento ritenuto dall’Alleanza non a rischio escalation con Mosca – e probabilmente non arriveranno nemmeno i Mig.
Zelensky ha quindi aperto ad una discussione sullo status della Crimea e delle repubbliche separatiste del Donbass, ha detto di aver “raffreddato molto tempo fa” il suo entusiasmo per l’ingresso nella Nato, dopo aver capito che la Nato “non è pronta ad accettare l’Ucraina, quest’alleanza ha paura delle controversie, ha paura di uno scontro con la Russia”. E dal suo partito è arrivata la proposta del tutto nuova di un accordo in base al quale, al posto dell’adesione alla Nato, Stati Uniti, Russia e Turchia si impegnerebbero a garantire la sicurezza dell’Ucraina.
Sul lato europeo, il pressing Usa per il bando delle importazioni energetiche russe, con i suoi effetti negativi sui mercati, e la frustrazione per una situazione che non si sblocca, hanno indotto la leadership franco-tedesca ad un pericoloso passo: chiamare Pechino. Ieri il presidente francese Macron e il cancelliere tedesco Scholz hanno avuto una videocall con Xi Jinping. Ma invitare la Cina a svolgere un ruolo di mediazione sarebbe un errore e aprirebbe una ulteriore crepa con Washington.
Il tema della dipendenza energetica europea dalle fonti russe resta. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha annunciato un piano per ridurla dell’80 per cento già nel corso del 2022. Come? Tre pilastri: diversificazione delle forniture; più investimenti nelle rinnovabili; efficienza energetica.
Obiettivo poco credibile, secondo e terzo pilastro molto fragili. Se qualcosa avremmo dovuto imparare dalla crisi ucraina, è che proprio la transizione forzata alle rinnovabili ha consegnato la nostra sicurezza energetica nelle mani di Russia e Cina, ha indebolito le nostre industrie, aumentato i prezzi e imposto una tassa sul ceto medio.
Non è ancora chiaro, per esempio, come Berlino pensi di tener fede all’impegno di ridurre la sua dipendenza dalla Russia, annunciato solennemente al Bundestag dal cancelliere Scholz, escludendo di prolungare la vita delle tre centrali nucleari ancora in funzione. A tale proposito, ancora Victoria Nuland, in audizione, incalzata dal senatore Ted Cruz (Rep) ha detto che Nord Stream 2 è “morto” e non crede che verrà “resuscitato”, risultando però evasiva sulle sanzioni Usa contro il gasdotto russo-tedesco.
Ma il discorso vale anche per gli Stati Uniti, dove l’amministrazione Biden ha scelto deliberatamente di frenare la produzione domestica, cancellando la pipeline Keystone XL e sospendendo il rilascio di permessi per estrarre petrolio e gas da terre e acque federali. Lo scorso novembre la Casa Bianca ha candidamente ammesso che “l’aumento dei prezzi nel lungo periodo” aiuterà la transizione alle fonti rinnovabili.
Piuttosto che aumentare la produzione nazionale, sconfessando le politiche green, per raffreddare l’aumento dei prezzi dovuto al conflitto ucraino e alle sanzioni, l’amministrazione Biden preferisce sdoganare il petrolio del caudillo venezuelano Maduro e del regime iraniano, mentre si vede costretta ad elemosinare un aumento della produzione all’Opec. Ma come riporta il Wall Street Journal, durante la crisi ucraina il presidente Biden non è nemmeno riuscito a parlare con i leader di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Salman e Mohammed bin Zayed, che si sono rifiutati di accettare le sue chiamate, mentre hanno parlato più volte con Putin e Zelensky.
Non sorprende, dato che la prima cosa che ha fatto l’amministrazione Biden una volta insediata è stata raffreddare i rapporti con le monarchie del Golfo, negargli il sostegno nello Yemen, sospendere forniture militari e rivolgersi di nuovo a Teheran per concludere un nuovo accordo sul programma nucleare.