Non sappiamo ancora come si concretizzerà il progetto turco di controllare la Tripolitania. Sappiamo che Erdogan ha ottenuto il consenso del Parlamento turco (dominato dal suo partito) e che, apparentemente, ci sarebbero due linee di pensiero in Turchia su come sostenere al Serraj: la prima è quella di Erdogan, che punterebbe ad un sostegno massiccio, la seconda è quella dei generali, che invece (almeno per ora) propendono per un sostegno graduale, che parta dall’invio di armi, miliziani e addestratori e poi magari, se necessario, si espanda.
Detto questo, esiste già un modello a cui guardare per comprendere come potrebbe evolvere l’intervento turco in Tripolitania ed è un modello che dovrebbe impensierire l’Italia: si tratta di quello iraniano in Siria. Prima premessa: i due casi non sono totalmente sovrapponibili, anche perché le relazioni tra Teheran e Damasco sono decennali, ma ci sono diversi aspetti che possono essere presi in considerazione per provare a elaborare un vero e proprio “modello” per comprendere l’imperialismo odierno di alcune medie potenze (o presunte tali). Seconda premessa: prendiamo a modello il caso iraniano in Siria e non quello russo, perché Teheran ha fatto dell’uso delle sue milizie paramilitari un tratto distintivo del suo imperialismo.
Analizziamo per punti il “modello”:
- In Siria, l’intervento iraniano è partito con una richiesta di sostegno militare da parte del presidente Assad, in drammatica crisi dopo l’inizio delle proteste popolari nel 2011. La richiesta, come noto, venne accettata da parte della Repubblica Islamica, che ha nella Siria un asset chiave non solo per accedere ad un mare caldo, ma soprattutto per continuare a sostenere militarmente il gruppo terrorista libanese Hezbollah. L’Iran, quindi, scelse la strada del sostegno militare ad Assad, prima per mezzo di addestratori e armi. In Libia, praticamente, al Serraj ha fatto la stessa cosa, offrendo ad Erdogan un assist per legittimare (agli occhi dei suoi cittadini) l’intervento in Libia;
- Il sostegno militare iraniano al regime siriano allargò drammaticamente il conflitto, rendendolo una vera e propria guerra per procura. Fu la morte di ogni possibilità di mediazione: Assad aumentò la sua repressione, chiudendo ogni porta al dialogo. Dall’altra parte, l’anima moderata dell’opposizione venne relegata ai margini e le forze jihadiste presero il sopravvento, fino all’ascesa dell’Isis. Se non si troverà un accordo tra i due contendenti, è facile prevedere per la Libia una definitiva radicalizzazione delle posizioni, con un ruolo sempre più preponderante nel conflitto delle forze esterne al Paese;
- Il regime iraniano ha riempito la Siria (e non solo) di Pasdaran e di milizie paramilitari sciite, inviando anche foreign fighters afghani e pakistani, che non solo prendono ordini direttamente dai Pasdaran, ma che stanno cambiando la stessa demografia del Paese, occupando le aree “lasciate libere” dai siriani sunniti che, per fuggire alla guerra, hanno abbandonato le loro abitazioni. Nel caso libico, abbiamo già informazioni di miliziani siriani sostenuti dalla Turchia che hanno iniziato a spostarsi in Libia. Sarebbero 1600 quelli pronti a partire, soprattutto dalla zona di Afrin, dove hanno combattuto per Ankara contro i curdi. Facile prevedere che il numero aumenterà, anche perché i militari turchi non vorranno subito rischiare la vita dei loro soldati, con effetti diretti sul consenso popolare. Cosi come è facile prevedere che diversi dei miliziani jihadisti sunniti che Erdogan pagherà per combattere in Libia non torneranno a casa dopo tre o sei mesi, restando nel Paese in pianta stabile (o quasi) e rappresentando una vera e propria colonia filo-turca in nord Africa;
- Oltre al capitolo militare, c’è ovviamente il capitolo business. Per l’Iran quella in Siria non è solo una guerra, ma è anche una occasione di fare soldi, per imporre a Damasco accordi commerciali (in primis la vendita di armi e gas), per sottoscrivere prestiti vantaggiosi e per costruire nel Paese delle vere e proprie basi militari permanenti. Come noto, anche la ricostruzione è un business. È facile quindi prevedere che anche nel caso della Tripolitania, la Turchia imporrà il suo volere non solo sul piano militare, provando a trarre un vantaggio economico dalla crisi.
Questo per sommi capi il modello, da prendere ovviamente con le pinze, come tutti i modelli. Ad ogni modo, il processo – richiesta di intervento da parte del governo locale; accettazione della richiesta con invio di “esperti” militari; occupazione militare del Paese per via diretta o tramite milizie paramilitari; firma di accordi economici a favore della forza esterna intervenuta – sembra potersi ripetere anche in Tripolitania ad opera di Ankara dopo il caso iraniano (e russo) in Siria.
Detto questo, c’è sempre un però: interventi simili non rappresentano solo una opportunità di espansione dell’influenza e del proprio potere all’esterno. Rappresentano anche un costo. Anche qui, basta prendere il modello iraniano per comprendere i possibili effetti negativi per Ankara nel prossimo futuro: dall’inizio del suo intervento in Siria Teheran ha dovuto reprimere nel sangue numerose proteste interne contro la corruzione e la crisi economica, in cui i manifestanti hanno gridato slogan quali “No Gaza, No Libano, la mia vita solo per l’Iran”. Non solo: proprio in queste settimane, manifestazioni popolari contro l’influenza iraniana sono scoppiate nelle aree sciite dell’Iraq e del Libano, segno che non basta la condivisione di una fede religiosa per accettare passivamente un volere esterno. L’Iran sta quindi oggi lottando per mantenere questa influenza, continuando a reprimere nel sangue non solo le proteste interne, ma anche quelle esterne. Non abbiamo la palla di vetro per sapere come finirà, ma sappiamo che a Teheran il regime non dorme sonni tranquilli.
Concludendo, possiamo dire che il “modello” dovrebbe essere preso in esame fino in fondo, possibili conseguenze negative incluse: il peggioramento del conflitto (nonostante la possibile stabilizzazione del Paese in cui si interviene), la crisi di legittimità e l’inizio delle proteste interne ed esterne. Proteste che, per un leader come Erdogan, potrebbero anche significare un colpo di stato (direttamente o indirettamente sostenuto dai militari) – questa volta non simulato ad arte – e la fine del suo potere.