Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo articolo-denuncia di Mariano Giustino, corrispondente di Radio Radicale dalla Turchia, espulso da Facebook senza ricevere comunicazioni
Nella notte del 15 aprile, grazie alla legge che in Turchia riforma l’esecuzione penale è stato rilasciato un membro della criminalità turca, Alaattin Çakıcı. La mattina seguente ne ho dato notizia sui miei account Twitter e Facebook con il seguente post:
”Turchia: questa notte, grazie alla legge sull’esecuzione penale, è stato rilasciato un membro della criminalità, Alaattin Çakıcı, appartenente ai Lupi Grigi. La legge concede la riduzione di pena per 90 mila prigionieri, ma non per giornalisti, politici di opposizione e attivisti per i diritti umani @RadioRadicale”
È bastato questo post per vedermi espulso dalla community di Facebook.
Sono stato disabilitato, sono sparito!
Ho provato a contattare i responsabili del portale senza riuscirci, ho dunque inviato una mail con una richiesta di chiarimento sia alla sede di Palo Alto che a quella di Facebook Italia, ma ad oggi non ho ricevuto alcuna risposta.
Hanno chiuso il mio profilo, dopo che avevo postato la notizia della liberazione di Alaatin Çakıcı, noto boss della mafia turca, pluriomicida, appartenente al movimento panturanico dei Lupi Grigi e al Partito del movimento nazionalista MHP, prezioso alleato di Erdoğan.
Avevo semplicemente ripreso la notizia ampiamente diffusa dai media mainstream del Paese. Oltretutto, ho sempre pubblicato sul mio profilo Facebook contenuti totalmente in linea con gli standard della community, dal momento che utilizzo per il mio lavoro solo fonti di informazione ufficiali.
Intendo andare fino in fondo in questa grave censura, per chiedere che il mio diritto umano alla libertà di espressione e al libero esercizio dell’attività giornalistica venga tutelato e garantito e, nel mio caso, ripristinato, così come recita la nostra carta costituzionale.
Facebook mi ha tolto la parola e mi ha tappato la bocca. Ha silenziato me, unico giornalista italiano che da dieci anni documenta, dalla Turchia, tutto quel che accade, tutto, senza autocensura.
Continuerò dunque a chiedere all’azienda californiana il motivo della mia espulsione dalla community, fino a quando non avrò risposta.
Non voglio che cada il silenzio sul comportamento inspiegabile e scandaloso di Facebook, che decide arbitrariamente, e dunque illegalmente, chi può esprimere le proprie opinioni e chi no.
Lo ritengo questo un dovere non solo per la mia vicenda personale, ma soprattutto per tutti quegli operatori dell’informazione e per i giornalisti che lavorano tra mille difficoltà ovunque nel mondo e che sono intimiditi, ricattati e soggetti ad ogni violenza.
Pur essendo una azienda privata, Facebook ha creato uno spazio pubblico all’interno del quale l’utente-cittadino deve vedere rispettati i propri diritti.
Ritengo che il mio profilo, come quello di tantissimi altri, sia equivalente ad una pagina di un giornale dal momento che documentavo, quotidianamente, tutto quello che accadeva, in tutti gli ambiti della vita sociale, economica e politica turca.
Pertanto il mio oscuramento limita fortemente la mia attività lavorativa, che svolgo da dieci anni per l’emittente italiana Radio Radicale in qualità di corrispondente dalla Turchia. Limita la mia libertà di informare e, ripeto, è lesiva del mio diritto umano fondamentale alla libertà di espressione nonché del diritto umano alla conoscenza.
L’archivio del mio profilo Facebook racconta una parte importante della storia della Turchia e costituisce dunque una produzione preziosa del lavoro svolto da me in questi ultimi dieci anni.
Considero la raccolta rigorosa di informazioni e il racconto meticoloso di ciò che accade nel Paese in cui vivo un bene prezioso, il fondamento stesso della mia professione di giornalista.
La piattaforma Facebook non può comportarsi come un “Grande Fratello” di stampo sovietico, che persegue i suoi legittimi interessi economici violando i diritti dei consumatori, le convenzioni internazionali sui diritti umani e dunque i principi fondamentali che sono alla base di ogni convivenza civile.
Il signor Zuckerberg si nasconde dietro fantomatici “standard” che nessuno conosce e dei quali solo lui ha il controllo, altro che “piattaforma di libertà” come lui stesso aveva definito la sua creazione.
Il social dovrà chiarire un punto delicato. Perché, ed eventualmente per conto di chi, agisce l’azienda? È un diritto dell’utente saperlo. Nel momento in cui viene oscurato un profilo, dovrebbe essere fornita una motivazione dettagliata per iscritto, per permettere all’utente di farvi ricorso.
È questo un principio base di civiltà democratica. Il diritto di sapere, di conoscere di cosa si viene accusati, per potersi difendere e vivere in sicurezza.
Facebook dovrebbe rendere pubblici i dati sulla rimozione dei contenuti, in tempo reale. Ma non lo fa! Dovrebbe essere un obbligo. Dovrebbe rendere pubblici i dati sulla provenienza delle richieste di rimozione degli account. L’utente dovrebbe sapere da che parte provengono le richieste di rimozione dei post e quelle dei profili. Dovrebbe sapere se queste provengano da singoli, da organizzazioni o da governi. Dovrebbe essere informato sul numero dei contenuti rimossi, sulle ragioni per le quali sono stati rimossi e qual è il numero di quelli riattivati.
Tutto ciò si chiama trasparenza, si chiama diritto alla conoscenza, si chiama civiltà. Sono regole civili, di democrazia, di rispetto del diritto dei consumatori e dei diritti umani. Solo allora Facebook potrà essere definita “piattaforma delle libertà”.
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Per quanto mi riguarda, non smetterò di denunciare massacri di vite umane, di democrazia, di stato di diritto ovunque si verifichino.
E non posso fare a meno di pensare a tutti coloro che subiscono la censura di governi autocratici e di dittature purtroppo ancora esistenti in buona parte del pianeta; luoghi dove si praticano censura e repressione sistematicamente nei confronti di voci critiche e di oppositori.
Penso alle condizioni sempre più drammatiche in cui vive la società civile turca, che è sotto assedio da tempo con arresti e intimidazioni che stanno minando la risorsa democratica più preziosa della Turchia: la sua società civile, appunto, che si è sviluppata e radicata fin dagli anni Ottanta e che è senza dubbio una delle più attive e combattive d’Europa, con il lavoro prezioso che svolge in ogni ambito.
Penso a Osman Kavala, filantropo e presidente di Anadolu Kültür, esponente di spicco della società civile turca e dei diritti umani, ristretto dal 30 ottobre 2017 nel carcere di massima sicurezza di Silivri, quasi mille giorni, con l’accusa surreale di aver tentato di “sovvertire l’ordine costituzionale e di aver tentato di rovesciare il governo di Erdoğan” attraverso le proteste antigovernative di Gezi Park di İstanbul nella primavera del 2013. Penso alla sua detenzione in questo periodo terribile per la diffusione della pandemia anche nelle carceri turche.
Osman Kavala ha criticato la politica di Erdoğan, è vicino agli oppositori del presidente e dunque è considerato un terrorista e non potrà beneficiare di alcuno sconto di pena.
È proprio Erdoğan che ha deciso che deve restare in prigione e nessuna legge potrà prevedere la sua liberazione. Nessun giudice, nessuna commissione potrà offrirgli benefici. “Osman Kavala è in galera per volere del presidente”, sostengono i suoi avvocati. “Un giudice lo aveva assolto, aveva cercato di liberarlo, ma Erdoğan si è messo la toga, è intervenuto e lo ha rimesso in prigione”.
La Corte europea dei diritti dell’Uomo, lo scorso anno, aveva emesso una sentenza con la quale chiedeva l’immediata liberazione del filantropo perché la sua lunghissima detenzione in attesa di giudizio, violava i suoi fondamentali diritti umani, ma la Turchia, nonostante sia membro del Consiglio d’Europa e dunque firmataria della Convenzione europea sui diritti umani, si è rifiutata di liberarlo, ha fatto ricorso contro la sentenza e martedì 12 maggio la CEDU l’ha respinto.
Dunque, Osman Kavala dovrebbe essere subito liberato, ma ciò non è ancora avvenuto.
Ormai l’appartenenza al Consiglio d’Europa e la firma di convenzioni internazionali sono diventate delle fredde medaglie.
Penso ai 121 giornalisti perseguitati, tra i quali Barış Terkoğlu e Barış Pehlivan, allo scrittore Ahmet Altan, che resteranno in carcere; quest’ultimo è stato condannato all’ergastolo e i primi due si sono visti respingere proprio pochi giorni fa l’istanza di scarcerazione presentata dai loro avvocati, il pubblico ministero ha formulato due capi d’accusa per reati di rivelazione di segreti di stato, per i quali è prevista una pena dai 7 ai 18 anni.
Penso ai politici d’opposizione in galera, come Selahattin Demirtaş, leader carismatico curdo del Partito democratico dei popoli, ristretto nella prigione di tipo F dell’alta sicurezza di Edirne dal 4 novembre del 2016 con l’accusa di terrorismo.
Penso ai 18 avvocati che sono ristretti nelle prigioni turche solo perché difendono oppositori di Erdoğan, due di loro, del ÇHD, dell’Associazione degli avvocati progressisti, stanno conducendo un “digiuno fino alla morte”, come viene definito dagli stessi autori, Ebru Timtik e Aytaç Ünsal.
Ebru Timtik è in digiuno della morte da 140 giorni, Aytaç Ünsal da 107 giorni.
Scioperano perché chiedono un giusto processo.
Sono migliaia i prigionieri politici che languiscono nelle 385 superaffollate prigioni turche per accuse di terrorismo per presunti legami con vari gruppi, tra cui il partito dei lavoratori del Kurdistan fuorilegge PKK e il movimento religioso di Fethullah Gülen, che il governo incolpa del fallito golpe del 2016.
Organizzazioni per i diritti umani e gruppi di opposizione hanno chiesto al governo il rilascio incondizionato di giornalisti, di attivisti per i diritti umani, di accademici, avvocati e politici d’opposizione incarcerati esclusivamente per le loro opinioni politiche.
La recente legge sull’esecuzione penale varata col pretesto del coronavirus e del sovraffollamento ha escluso la liberazione dei prigionieri politici, ma ha liberato criminali pluriomicidi vicini al partito ultranazionalista MHP.
Il reporter Can Ataklı di Tele1, pochi giorni fa, nel programma mattutino “GE Başlıyor”, aveva messo in scena una clamorosa protesta silenziosa: è andato in onda restando in silenzio per cinque minuti durante la trasmissione per protestare contro l’ultima censura subita dalla sua rete televisiva per opera della RTÜK, l’Autorità della Radio e delle Telecomunicazioni, che aveva emesso un divieto temporaneo della trasmissione e aveva comminato una multa per i commenti critici di Ataklı nei confronti del governo.
Da marzo, RTÜK ha preso di mira Tele1, Fox Tv e Halk Tv, tutte emittenti indipendenti e critiche nei confronti della politica di Erdoğan.
Halk Tv ha ricevuto da RTÜK una sospensione di suoi 5 programmi per avere ospitato Canan Kaftancıoğlu, la presidente di Istanbul del principale partito di opposizione nel programma televisivo “Sözüm Var” (“La mia voce c’è”), che aveva criticato il presidente turco dicendo: “Vedo il corso di un cambiamento di potere e persino un cambiamento di sistema, e penso che sarà così”.
Parole queste considerate golpiste.
Sono stati comminati ventidue giorni di sospensione delle pubblicazioni al giornale kemalista d’opposizione Sözcü e 19 giorni al quotidiano Korkusuz (che significa “Non abbiamo paura”).
Erdoğan è accusato dall’opposizione di usare la pandemia di coronavirus per continuare a reprimere le decine di migliaia di prigionieri politici del Paese.
Il presidente, in uno dei suoi ultimi “discorsi alla nazione”, debitamente trasmesso attraverso tutti i mezzi disponibili, ha affermato con aria di sfida che “il Paese sradicherà tutti i suoi virus dai media e dalla politica”. “Credo – ha detto Erdoğan – che per il Paese liberarsi della politica patologica (cioè quella delle opposizioni), sia importante almeno quanto liberarsi del Covid-19“.